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Mali e Senegal: casi diversi e in bilico

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Come previsto, l’epidemia di Covid-19 ha ormai pienamente investito anche il continente africano. In Africa i casi di contagio e i decessi legati al Coronavirus restano al di sotto della media mondiale, pur continuando a crescere; ciò che preoccupa governi ed esperti sono soprattutto le ripercussioni socio-economiche e politiche dell’attuale crisi sanitaria.

Il Dottor John Nkengasong, direttore dell’Africa Centres for Disease, Control and Prevention (Africa-CDC, legato all’Unione Africana), prevede “una crisi della sicurezza, una crisi economica e una crisi sanitaria, in quest’ordine”. Senza voler minimizzare gli effetti diretti che una pandemia di tale portata esercita negativamente su sistemi sanitari nazionali già fortemente precari, il virologo camerunese pone l’accento sull’importanza di guardare anche agli scenari socio-economici e politici che si profilano all’orizzonte. Seguendo tale approccio, è interessante analizzare i casi di due paesi, finora fra i più colpiti dall’epidemia di Covid-19 in Africa occidentale: il Mali e il Senegal.

La dichiarazione dello “stato d’emergenza” da parte del presidente del Mali Ibrahim Boubacar Keita (IBK) il 25 marzo, all’indomani del primo caso registrato, ha seguito un pacchetto di misure preventive messe in atto nel paese già a metà marzo: chiusura delle scuole, dei bar-ristoranti, dei luoghi di culto, degli stadi e delle frontiere terrestri (ad eccezione del trasporto di beni di prima necessità), divieto di assembramenti con più di cinquanta persone e, dal 26 marzo, coprifuoco dalle 21 alle 5 del mattino. A un mese da tali decisioni, il distanziamento sociale sembra contribuire al parziale contenimento (o rallentamento) della propagazione del virus in Mali. Secondo le cifre fornite dall’Istituto Nazionale di Salute Pubblica (l’INSP, organo governativo incaricato di divulgare i dati aggiornati), infatti, al 4 maggio i casi di contagio confermati sul suolo maliano sono 580, con 29 morti e 223 guariti. Quello che si deduce da tali dati è che a fronte di pochi casi corrisponde un tasso di mortalità (5%) ben al di sopra della media regionale e mondiale.

Senza dubbio le croniche difficoltà in cui versa il sistema sanitario nazionale impediscono un tracciamento di massa, mantenendo basse le cifre ufficiali del contagio. Ma c’è dell’altro. E’ opinione diffusa nell’ambiente scientifico mondiale, ad esempio, che la struttura del SARS-CoV-2 presenti sostanziali difficoltà a sopravvivere e proliferare in paesi dal clima molto caldo e umido. Uno studio pubblicato dalla rivista The Lancet Microbe il 2 aprile ipotizza che il virus Covid-19 resista poco più di 24 ore a temperature maggiori di 37°. Se confermata, questa tesi spiegherebbe almeno in parte la diffusione più lenta e finora più contenuta del virus in Africa subsahariana rispetto che altrove. A ciò va aggiunto anche che la piramide delle età in Africa occidentale è quasi inversa rispetto a quella europea, con una popolazione complessivamente molto più giovane.

Una donna con mascherina a Bamako, capitale del Mali

 

Nonostante i dati fin qui registrati, però, la percezione, a Bamako come altrove nella regione, è che il peggio debba ancora arrivare. Tale preoccupazione è condivisa da diverse organizzazioni internazionali, prima fra tutte l’OMS che fin dall’inizio della pandemia ha messo in guardia l’Africa. A spaventare la comunità internazionale sono soprattutto le condizioni strutturali, economiche e politiche di molti paesi africani, i cui sistemi sanitari potrebbero velocemente collassare, se la crisi per qualsiasi motivo si aggravasse anche solo leggermente. Basti pensare che in Mali, secondo il Ministero della Salute e degli Affari Sociali, attualmente ci sono solo 56 respiratori artificiali e 40 posti disponibili in rianimazione su una popolazione totale di 18 milioni di persone. In questo paese ogni anno medici e infermieri scioperano per salari bassissimi, spesso non corrisposti per mesi, e per ospedali pubblici sovraffollati e carenti di tutto.

Consapevole delle falle sistemiche e dei rischi ad esse correlati, il Ministero della Salute e degli Affari Sociali ha annunciato un piano d’azione del valore di circa 5,5 milioni di euro. Un fondo specificamente destinato all’acquisto di materiale sanitario per contenere l’epidemia, compreso l’ordine di ulteriori 60 respiratori artificiali alla società cinese Mindray. Sforzi che paiono tardivi e insufficienti ad aumentare in maniera decisiva la capacità di assorbimento del sistema.

Ma la dimensione sanitaria, come già detto, non è la faccia più tetra dell’Idra contro cui combattono cittadini e governanti africani. Ne è consapevole il Presidente che il 10 aprile, durante il terzo discorso alla nazione dall’inizio della pandemia, ha annunciato una serie di misure sociali del valore di circa 750 milioni di euro, fra cui un fondo speciale “per le famiglie più vulnerabili”, la distribuzione di 57mila tonnellate di cereali e 16mila tonnellate di alimenti per gli animali e il lancio del programma “un maliano, una mascherina” con una commessa immediata di 20 milioni di dispositivi di protezione facciale ai sarti di Bamako. Ibrahim Boubacar Keita ha anche dichiarato di voler rinunciare a tre mesi di stipendio, seguito dal primo ministro (due mesi di salario) e dagli altri membri del governo (un mese).

Al netto dei proclami governativi,  la situazione del Mali – così come quella di altri paesi “a rischio” dell’Africa occidentale – appare critica e potenzialmente esplosiva.

Più virtuoso, invece, sembra il caso del Senegal, dove al 4 maggio i contagi hanno raggiunto la cifra di 1271, mentre i decessi legati al Covid-19 sarebbero appena 10, con un tasso di mortalità fra i più bassi al mondo. Altro dato positivo è quello delle guarigioni, finora 415. Da notare che in Senegal le condizioni strutturali della sanità sono decisamente migliori rispetto a molti altri paesi della regione. Secondo fonti ufficiali, ad esempio, i letti in rianimazione (100) e i respiratori artificiali (80) sarebbero superiori ai paesi limitrofi, anche se insufficienti a fronteggiare un eventuale peggioramento della crisi.

Ulteriore elemento di speranza, in Senegal, è rappresentato dalla qualità dei laboratori scientifici e della ricerca medica. L’Istituto Pasteur, centro virologico d’eccellenza regionale, è attivamente coinvolto nella sperimentazione di un test per il tracciamento rapido del Covid-19, in collaborazione con il laboratorio inglese Melodic. Un metodo semplice (attraverso una goccia di sangue analizzata al microscopio) e veloce (10-20 minuti, contro le 24-48 ore dell’attuale test rinofaringeo utilizzato in Occidente) mutuato dall’esperienza epidemiologica africana relativa ad altre malattie (HIV, tubercolosi, malaria, ebola), che attualmente è in corso di autenticazione da parte di cinque istituti internazionali prima di poter essere impiegato su scala regionale, continentale e mondiale. Ulteriore strumento al vaglio degli scienziati senegalesi è la clorochina, un medicinale oggi utilizzato nella cura della malaria. Il medico francese nato a Dakar Didier Raoult, dopo i primi dubbi sollevati dalla comunità scientifica occidentale, ne sta testando gli effetti sui pazienti positivi in Francia, in stretta collaborazione con l’Istituto Pasteur di Dakar.

Una misura governativa inizialmente criticata come “troppo drastica” e oggi invece citata come uno dei principali scudi alla rapida propagazione del SARS-CoV-2 nel paese, è stata la chiusura delle frontiere aeree decisa dal governo senegalese fin dal 20 marzo. Un isolamento totale esteso almeno fino al prossimo 31 maggio che, secondo diversi esperti, starebbe efficacemente proteggendo il paese dal virus.

Al netto della positiva condizione sanitaria, però, l’economia senegalese, così come in generale quella regionale e continentale, è messa a dura prova dall’eccezionalità della situazione attuale. L’85,5% della forza lavoro africana, infatti, è impegnata nel settore informale che, naturalmente legato alla quotidianità e alla possibilità di uscire di casa, sfugge alle politiche sociali messe in atto dai vari governi. Le rimesse iniettate nel continente dalla diaspora residente all’estero, inoltre, cominciano a risentire delle attuali difficoltà lavorative in Occidente. A lanciare l’allarme, fra gli altri, è il report di Finactu “L’Africa di fronte al Coronavirus: Meno morti ma più disoccupati?”.

Un murale “anti-covid” a Dakar

 

Per far fronte alle insidie socio-economiche, il governo senegalese ha varato il Programma di resilienza economica e sociale (PRES), del valore di 2 miliardi di dollari. Una cifra ben superiore a quelle mobilitate dai paesi meno sviluppati della regione, che necessitano, oggi più di ieri, di aiuti finanziari per evitare il collasso dei propri sistemi politico-sociali. Per questo i principali partner del continente – dalla Cina alla Francia, dall’Unione Africana all’Unione Europea, dalla Banca Mondiale alla Banca di Sviluppo Africano –  hanno già promesso miliardi di dollari per “non lasciare sola l’Africa” di fronte alla pandemia.

Sfruttando l’occasione politica, il presidente senegalese Macky Sall sta cercando di ricompattare il disgregato fronte dell’opposizione, chiamato alla “sacra unione” contro la minaccia di un nemico esterno, comune ed invisibile. Sul piano internazionale, Sall è stato fra i primi governanti africani a chiedere la cancellazione del debito pubblico continentale e il congelamento (o la  rinegoziazione) di quello privato come strumenti per fronteggiare l’epidemia. “Di fronte alla pandemia una moratoria sul debito africano è necessaria” gli ha fatto eco il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, che a fine marzo aveva a dichiarato che “ci saranno senza dubbio milioni di morti in Africa”.

In un editoriale apparso sul quotidiano senegalese Le Soleil con il titolo “L’Africa e il mondo di fronte al Covid-19: il punto di vista di un africano”, Macky Sall ha esposto la necessità di “un nuovo ordine mondiale che metta l’essere umano e l’umanità al centro delle relazioni internazionali: l’agricoltura, le fonti di energia rinnovabili, le infrastrutture, la formazione e la salute”. Un’utopia che potrebbe convertire questa crisi sanitaria in una preziosa opportunità di ridefinizione del contratto sociale, trasformando l’Africa in un modello virtuoso di gestione delle epidemie globali. Coronavirus permettendo.