international analysis and commentary

La confusione nel campo democratico e il fattore virus nel voto USA

2,348

Qualche tempo fa, guardando il film Joker – una trama dark che inquadra diverse contraddizioni della nostra epoca –, mi sono posto una domanda sulla società americana. Mi sono chiesto se una società iperdinamica, iperconnessa, ipercapitalista, che ignora totalmente chi da questa struttura è escluso, possa davvero in qualche modo essere attaccata e messa in discussione in modo così plateale e drammatico come nel film.

Ecco, nel momento in cui il mondo sperimenta il coronavirus ed è costretto a rallentare, e a limitare la stessa libertà di movimento o semplicemente abitudini e gesti che nel nostro quotidiano sono ormai automatici, quella inquietudine del film torna.

Nei giorni della psicosi delle scorte ai supermercati, degli italiani che diventano i “nuovi cinesi” e vengono esclusi dagli eventi internazionali, dagli appuntamenti di lavoro all’estero o dagli aeroporti di mezzo mondo, viene fuori in maniera violenta la fragilità delle nostre società: rappresentate da classi politiche che, davanti ad un problema sanitario reale di ampia portata, strumentalizzano il problema, addirittura soffiando sulla paura, invece di proporre una visione di insieme.

Sappiamo bene che paure e frustrazioni non gestite rendono una società più vulnerabile. Come è successo nell’ultimo decennio, possono portare in ogni angolo del pianeta a far crescere ed in alcuni casi addirittura a far vincere partiti o candidati di stampo populista anti-sistema.

E’ su questo sfondo generale che si è entrati nella parte più calda della campagna elettorale presidenziale americana, con il Super Tuesday di martedì 3 marzo.

L’ultimo comizio di Bernie Sanders a Los Angeles

 

Tenendo presente che quasi sempre il presidente uscente ha riconquistato il secondo mandato alla Casa Bianca (solo Jimmy Carter nel 1979 e George Bush nel 1992 fallirono la rielezione) e considerando che l’economia americana va a gonfie vele almeno a livello nominale, sfornando ogni mese nuovi posti di lavoro (anche se in tanti casi con salari bassissimi), la rielezione di Donald Trump, visto anche lo scampato impeachment, sembra essere davvero probabile.

Ma due scenari sarebbero in grado di mettere in discussione una nuova vittoria di Trump: l’affermazione di una leadership forte in campo democratico e il fattore coronavirus, che potrebbe improvvisamente arrestare l’andamento positivo dell’economia americana.

Nonostante la recente vittoria in South Carolina di Joe Biden, seguita dagli endorsement dei ritirati Pete Buttigieg e Amy Klobuchar, dai vertici del Partito Democratico continua a trapelare un certo nervosismo dovuto alla crescita delle quotazioni di Bernie Sanders. Rispetto alla partita di quattro anni fa, in cui Hillary era l’unica candidata sostenuta da tutto l’establishment del Partito Democratico, questa volta il fronte che si oppone al Senatore del Vermont è stato finora più variegato e dunque ha lasciato più spazio al candidato “eretico”.

In considerazione dei tanti candidati presenti e delle forti spaccature ideologiche, molti prevedono una “Brokered Convention” in luglio a Milwaukee, ossia una Convention del partito dove nessuno dei partecipanti alle primarie riesca ad ottenere la maggioranza dei delegati per conquistare la candidatura alla Casa Bianca.

Qualcosa potrebbe cambiare in caso di accordo per una vicepresidenza, ma allo stato attuale l’andamento è quello di un “Sanders contro tutti”, e quindi di una Convention dall’esito imprevedibile. Potrebbero magari finire per deciderla davvero i notabili del partito, ossia i superdelegati, quota di delegati speciali che non viene eletta ma è espressione del gruppo dirigente – anche se da quest’anno solo dalla seconda votazione.

Negli USA le elezioni si vincevano sempre al centro e tra i moderati. Donald Trump ha dimostrato che questa regola non è più valida. Sanders, essendo speculare a Trump nel suo radicalismo come nella sua critica anti-establishment, potrebbe prevalere proprio grazie alla popolarità nel paese reale, al movimento di sostegno che lo circonda e che trae forza dall’opposizione dell’establishment, e alla carica comunitaria ed ideologica della sua politica.

Nella lotta tra i candidati democratici, al Super Tuesday si è inserito anche il miliardario, ex sindaco di New York, Michael Bloomberg. Con questo ulteriore ingresso, la lacerazione e la divergenza in seno ai candidati diventa potenzialmente ancora più profonda e il Partito dovrà assolutamente ricomporla, per avere una chance di vittoria il 3 novembre.

Senza scomodare ed invocare una leadership unificante alla Franklin Delano Roosevelt, in questa situazione di criticità globale e con un Presidente assoluto polarizzatore dell’opinione pubblica, i Democratici hanno bisogno che la partita delle primarie si chiuda presto e con una netta e legittima affermazione senza contestazioni o guerre fratricide. Oltre che spaccare l’elettorato, una situazione del genere potrebbe portare alla presentazione di una candidatura indipendente, fuori dai due partiti tradizionali, che sarebbe la garanzia della riconferma di Donald Trump.

La candidatura indipendente di Ralph Nader nel 2000 aiutò l’elezione del Repubblicano George W. Bush

 

E’ già successo nel 2016 che una parte dei sostenitori duri e puri di Sanders alle primarie, soprattutto tanti giovani, si siano persi per strada senza partecipare alle presidenziali dove avrebbero dovuto votare per Hillary Clinton, colpiti dalla disillusione per la mancata investitura del loro candidato.

In questo scenario di divisione e confusione si inserisce il fattore coronavirus. Non solo per quanto riguarda i possibili effetti diretti sull’economia, ma anche per quanto riguarda la comunicazione da diffondere e gestire sull’argomento, e le sue eventuali strumentalizzazioni. Già nei giorni scorsi, Donald Trump è partito all’attacco, definendo il coronavirus un’arma (come l’impeachment) utilizzata dai Democratici per destabilizzarlo. Data l’importanza del problema e considerata l’esperienza di campagna elettorale inquinata dalle “fake news” nel 2016, con il Russiagate e l’attività di raccolta dei dati Cambridge Analitica, è chiaro che la partita si fa estremamente importante anche e soprattutto a livello comunicativo. Servirà un indispensabile fact-checking su temi non trattabili.

La copertina del New Yorker del 28 febbraio

 

E’ ormai un dato consolidato che le paure e le inquietudini, unite a narrative politiche “tossiche”, che le alimentano soffiando sul fuoco – visto anche il livello di permeabilità immediata delle persone grazie agli strumenti di comunicazione digitale –  possono portare nuovamente al sonno della ragione ed alimentare mostri minacciosi per la democrazia nel mondo.

Bernie Sanders – e l’ala più radicale del partito, capitanata da Alexandria Ocasio-Cortez – gioca una partita nello stesso campo di Trump, quella dell’America spaventata, disillusa, inquieta. Offre però una ricetta diametralmente opposta: lo stato come soggetto-rifugio che sostiene gli individui e li fa sentire collettività, garantendo diritti universali come salute, istruzione, salari adeguati ed un’ambiente vivibile. Una ricetta tanto antica quanto rivoluzionaria per il tempio del capitalismo e individualismo, dove lo stato – se non in dosi ridotte – tende a non intromettersi nella regolazione del mercato e della vita degli individui.

Il vero nodo della campagna elettorale sarà capire se il vecchio socialista Bernie Sanders sarà in grado di rovesciare il piano politico su cui gioca non solo il miliardario populista Trump, ma anche le migliaia di lobby che sono l’ossatura dell’America profonda.