international analysis and commentary

I nuovi cittadini

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La democrazia è in fondo un concetto di un cinismo meraviglioso. Presume che gli attori, i cittadini elettori, si esprimano al voto considerando prima di tutto i propri interessi privati – non quelli del pubblico allargato né, tanto meno, quelli dei lontani cittadini di un altro paese.

L’appello periodico agli elettori era una sostituzione pacifica alle rivolte e alle rivoluzioni. Chiedere di tanto in tanto il consenso popolare favoriva tutti gli interessi in causa. I leader sconfitti potevano tornare a casa con la testa ancora sulle spalle e la popolazione aveva modo di dire chiaramente se poteva sopportare le politiche che si volevano imporre al proprio paese.

Che abbia ottenuto dei risultati spettacolari è fuori dubbio. Quasi ovunque i paesi improntati alla democrazia sono prosperosi e almeno relativamente pacifici. È un sistema di governo perlopiù marcato dalla regola che ciò che non è vietato è lecito: un meccanismo che libera l’abilità e il potenziale della popolazione rispetto alle nazioni dove bisogna chiedere il permesso preventivo prima di introdurre le novità, che siano economiche, sociali o anche politiche.

 

CAMBIO DI SISTEMA OPERATIVO. Il mondo cambia però in parte proprio per i fenomeni scatenati da tanta liberalità. Capita che le popolazioni, avendo acquisito un livello di prosperità che permetta loro di allontanarsi dalla disperata difesa del proprio interesse personale, sono sempre più inclini a “votarsi contro”, a esprimere preferenze che per motivi morali o emotivi possano favorire altre popolazioni prima delle loro.

Così si vota per gli “altri”: per i diseredati, per le minoranze, per i bambini in Africa, per gli immigrati disperati del Medio Oriente e dell’America Latina – senza mettere troppo in conto il costo “locale” delle scelte fatte e un po’ sorprendendosi dell’insoddisfazione che ne può risultare in patria.

Un altro elemento, non di minore importanza, è lo spettacolare impatto delle nuove tecnologie – specialmente nelle aree delle comunicazioni e del trasporto – che hanno ristretto le distanze geografiche. Una volta, nelle redazioni dei giornali, si usava l’espressione “notizie dalla Cina” per descrivere quei fatti strani che forse potevano servire, volendo, a riempire i “buchi” nella pagina. Oggi le notizie della Cina si danno di rigore, sono informazioni che riguardano tutti, e da vicino.

La democrazia è, per usare un’analogia presa dall’informatica, da tempo l’operating system politico dei paesi liberali occidentali. I cittadini però sono i bits e, organizzati, i bytes alla base di tutto. Ora, il sistema operativo stesso è cambiato. I governi sono oggi in grado di interagire, per via delle nuove tecniche di comunicazione, con ogni parte della società in una maniera senza precedenti.

Una volta, il “prefetto” – una tipica figura dei paesi europei – era una sorta di viceré, un personaggio dal grande potere che, almeno localmente, dettava legge a nome del governo centrale nella capitale allora distante. Oggi non si sa più chi sia. Non conta. È un’altra ruota anonima dell’ingranaggio governativo.

Sono cambiati anche i cittadini, i bits and bytes. Sanno enormemente di più di cosa succede nel mondo e nel paese – e non è detto che ne siano soddisfatti.

 

BREVE STORIA DELLA CITTADINANZA. Lo stesso concetto di “cittadino” è storicamente recente. In tempi non lontani il termine aveva un preciso sapore rivoluzionario. Il citoyen della rivoluzione francese era uno che stava sulle barricate. Il cittadino britannico, tuttora, non è tecnicamente “cittadino”, ma piuttosto un “soggetto” – di Sua Maestà la Regina, la monarca almeno nominalmente “sovrana”.

Dal punto di vista filosofico, la differenza sta nel punto da dove deriva la sovranità, cioè, il livello da cui proviene l’autorità di governare. Il concetto è attualmente malvisto da quelli che associano la sovranità con il populismo, ma nei fatti è più vecchio dell’idea stessa della cittadinanza.

La Rivoluzione francese ha trasferito la sovranità dal re al popolo

 

Risale, almeno per quanto riguarda le nazioni, ai trattati che posero fine alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648), alla Pace di Vestfalia, che tra l’altro destituì il papa dal suo ruolo di una sorta di supervisore superiore rispetto alla conduzione del Sacro romano impero, lasciando le singole nazioni che componevano l’impero del tutto responsabili – cioè “sovrane” – del proprio operato.

La chiesa infatti non ne fu per niente felice. Il papa dell’epoca, Innocenzo X, si espresse al riguardo in un memorabile “breve apostolico” in questi termini: “…dichiariamo che detti trattati […] sono e saranno legalmente e in perpetuo nulli, di nessun valore, non validi, perversi, ingiusti, condannati, riprovati, vani e senza alcuna forza o effetto”. Non gli si dette retta. La sovranità suprema scese sui principi, per arrivare poi, più in là e in via sempre più astratta, ai singoli cittadini.

A ogni modo, il dibattito in corso oggi – ovviamente molto diverso – riguarda comunque da vicino la questione della natura stessa della cittadinanza e l’opportunità di “restituire” una parte della sovranità delle popolazioni a entità sovranazionali nell’interesse del bene comune – nel caso europeo, all’UE. Ciò insieme ad altri fenomeni tendenti a cambiare il contenuto dell’idea della cittadinanza: come, per esempio, l’attenuarsi del legame territoriale che negli ultimi secoli ne è stata alla base.

Al livello più basso della contesa ci sono i semplici “svitati”. Asseriscono in vari modi che, non avendo mai firmato personalmente nessun “contratto sociale”, non sarebbero tenuti a rispettare gli obblighi derivanti. Non sorprenderà che spesso l’obbligo che offende di più è quello di natura fiscale…

 

MOVIMENTI “SENZA CITTADINANZA”. Così i sovereign citizens americani obbiettano che le leggi, istituendo le tasse sul reddito, non li riguardino. Le corti americane – non sorprenderà – non raccolgono l’argomentazione e non pochi di questi “sovranisti” sono finiti in galera per evasione fiscale.

Movimenti di stampo simile – per quanto meno focalizzati sull’aspetto fiscale – esistono in molti altri paesi dalla tradizione legale anglosassone. I Freemen on the land per esempio – attivi nel Regno Unito, Irlanda, Canada, Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda – ritengono di essere obbligati all’obbedienza del corpus delle leggi statutarie solo dando il proprio consenso e di potersi dunque dichiarare “indipendenti” da ogni governo. Un movimento scozzese, gli Indycampers, ha invece ritenuto di trovare un “vuoto legale” nell’Act of Union che nel 1707 unificò la Scozia all’Inghilterra. Su questa base hanno occupato i terreni sui quali sorge il parlamento scozzese con un campeggio abusivo semi-permanente (fino a che le autorità non hanno perso la pazienza).

La Germania presenta un fenomeno ancora più bizzarro, il Reichsbürgerbewegung, che significa pressappoco “Movimento dei cittadini del Reich” (il Secondo, non il “Terzo”, nazista). Il movimento asserisce che dal punto di vista strettamente legale la seconda guerra mondiale “non conta”, che la Costituzione di Weimar del 1919 sia ancora in forza, che il Deutsches Reich di allora continui a esistere. In sostanza si vuole supporre che, siccome l’attuale Repubblica tedesca è tecnicamente uno stato ex novo e non il successore della Repubblica di Weimar anteguerra, allora per logica quest’ultima non sarebbe mai stata soppiantata e l’attuale parlamento federale pertanto non avrebbe legittimità a governare.

Sono tutti movimenti ignorati dai rispettivi governi, finché non infrangono con il loro operato una delle leggi che ritengono di disconoscere, e poi scoprono che la polizia e le corti non sono impressionati dai loro curiosi sofismi legali.

Più sofisticati sono i tentativi di trovare delle giurisdizioni fuori dal controllo dei paesi attualmente esistenti. Un’istanza moderna fu italiana: la costruzione negli anni Sessanta dell’Isola delle Rose, una piattaforma artificiale di 400m2 impiantata nell’Adriatico, 11,6 km al largo di Rimini e 500 metri al di fuori delle acque territoriali italiane. Dichiarò “ufficialmente” la propria indipendenza il primo maggio del 1968. Lo Stato italiano, sospettando che l’intento potesse essere quello di sfruttare economicamente l’afflusso turistico della vicina costiera romagnola senza pagare le tasse, fece occupare la struttura dalle forze di polizia il 26 giugno 1968. L’Isola delle Rose fu fatta brillare dai genieri nel febbraio 1969.

Il fondatore della “micronazione”, l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, fu molto probabilmente influenzato dalle precedenti – e più felici – storie delle prime “radio pirata” che trasmettevano verso il Regno Unito e l’Olanda da piattaforme e navi nelle acque internazionali della Manica, a partire dai primi anni Sessanta. La più nota fu Radio Veronica, una delle più popolari emittenti olandesi fino alla chiusura nel 1974.

L’esperienza delle prime emittenti “senza cittadinanza” fu un’interessante dimostrazione di come la tecnologia, accorciando le distanze geografiche, indebolisca il senso territoriale della cittadinanza. È per certi versi un precursore del più recente esperimento della “Repubblica digitale” estone.

 

L’ESPERIMENTO ESTONE. L’Estonia è un paese piccolo, con una popolazione di poco più di 1,3 milioni. È geograficamente fuori mano, il più settentrionale dei Paesi baltici, confinante a est con la Russia. Malgrado il suo relativo isolamento, esprime da tempo una forte vocazione digitale. Già dal 2005 ha condotto le prime elezioni locali via internet; le prime parlamentari sono avvenute per le politiche del 2007. L’app di telecomunicazione Skype è di origine estone. Partendo dall’esperienza nella digitalizzazione dell’amministrazione statale, nel 2014 il paese ha lanciato il suo progetto di e-residency.

Per quanto i giornali, semplificando, abbiano parlato di “cittadinanza digitale” nei titoli, quella offerta dall’Estonia è più una forma di domiciliazione che di cittadinanza. Ma dal punto di vista economico – ciò che in fondo interessa ai governi – la differenza non è macroscopica.

Il programma di “e-residenza” offerto dal governo estone permette ai partecipanti di condurre i propri affari in qualunque parte del mondo come se si trovassero fisicamente in Europa (in Estonia, appunto), senza dover nemmeno visitare il paese. A chi partecipa al programma – dal costo modico, circa 100 euro – viene fornito un documento digitale, un plug-in per i documenti ufficiali e la firma digitale, oltre a una serie di password e istruzioni. Tutto ciò consente agli “e-residenti” di aprire conti in banche estoni in qualunque parte del mondo e registrare le proprie società in Estonia, indipendentemente da dove ci si trovi.

Ci sono dei limiti: la e-residency non consente di stabilirsi fisicamente nel paese, né di votare nelle sue elezioni e nemmeno di comprare una casa in Estonia (a meno che il reddito generato dalla nuova attività lì insediata non sia sufficiente a coprire il costo). Soprattutto, non è una nuova forma di paradiso fiscale: i residenti digitali continuano a pagare le tasse nel paese in cui risiedono concretamente. Allo Stato estone devono versare le imposte sulle imprese se, attraverso la e-residenza, hanno basato in loco le loro società.

L’iniziativa, tesa a far diventare l’Estonia la “prima nazione digitale per i cittadini globali”, non rappresenta un’aggressione ai diritti di altri paesi. L’e-residenza è stata lanciata all’interno del quadro delle leggi internazionali e con l’accordo dell’Unione Europea. Tanto per sottolinearne la legittimità, il premier giapponese Shinzo Abe e quello francese Emmanuel Macron hanno da tempo stabilito una loro residenza digitale in Estonia.

Finora, oltre 50.000 persone da 150 paesi hanno ottenuto la e-residency (soprattutto da Finlandia, Russia, Ucraina, Germania, usa e Giappone), fondando virtualmente nel paese più di 6.000 società nuove. Il 41% delle richieste di “cittadinanza virtuale” proviene da persone che gestiscono imprese internazionali non legate a un luogo specifico, un altro 14% da semplici curiosi.

L’esperimento estone infatti mira principalmente a creare una forma di domicilio cibernetico per i cosiddetti “nomadi digitali”, una nuova classe di lavoratori internazionali che si spostano di frequente e la cui attività non ha una vera base geografica. È una popolazione non ancora particolarmente estesa, ma in grande crescita e soprattutto parecchio prosperosa.

È interessante e probabilmente significativo che l’Estonia ha subito trovato che la sua sovranità digitale richiedesse anche una difesa digitale “simil-militare” per difenderla. Così è anche il primo paese al mondo ad avere un “cyberesercito”, la Küberkaitseliit (Lega di cyberdifesa, KKL). È nato in occasione degli scontri diplomatici con la Russia nel 2007, quando Mosca ha tentato di oscurare la rete informatica estone. L’esigenza allora, come oggi del resto, era quella di proteggere le strutture informatiche dello Stato – e ora dei suoi “e-residenti” – dagli attacchi cybernetici.

L’esperienza non ammonta ancora a una ridefinizione del concetto di cittadinanza, ma indubbiamente mira in quella direzione con il progressivo slegamento dalla base geografica che a oggi resta al cuore del senso di “appartenenza nazionale”.

Se la tendenza lanciata dagli estoni va avanti, è ragionevolmente prevedibile che per una parte della popolazione mondiale – quella più internazionalizzata – scegliere una cittadinanza sarà un giorno in qualche modo come acquistare una polizza d’assicurazione: una scelta da compiere in base al costo e a fronte di un’analisi dei servizi offerti.