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Il Medio Oriente dopo Soleimani: la vertigine della guerra e gli errori americani

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La politica mediorientale appare spesso un gioco “a somma zero”: c’è chi vince e c’è chi perde. Ma l’uccisione mirata del Generale iraniano Qassem Soleimani da parte degli Stati Uniti, avvenuta il 3 gennaio a Baghdad, sembra far presagire un esito perfino peggiore.

 

Vendetta e bersagli. Infatti, l’attacco mortale al capo degli al Quds, il corpo d’élite per le missioni all’estero dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (i pasdaran), lascia spazio a ben pochi vincitori. Certo, la vendetta promessa dal Consiglio nazionale di sicurezza iraniano, riunitosi d’emergenza e presieduto, in maniera inusuale, da Ali Khamenei, la Guida suprema della Repubblica islamica, è verosimilmente temibile. Lo è anche alla luce della rete di milizie sciite che proprio Soleimani ha organizzato fra Iraq, Siria, Libano, Afghanistan e, in misure minore, Yemen. Ma ancor più temibili sono le implicazioni, di medio-lungo periodo, militari (sul piano non convenzionale / asimmetrico), geopolitiche e marittimo-commerciali della mossa ordinata dal presidente Donald Trump.

In ogni caso, saranno molto probabilmente gli alleati storici di Washington in Medio Oriente a pagare, sul proprio territorio, le conseguenze della scelta americana: l’Arabia Saudita, le monarchie del Golfo, Israele. Insieme all’Iraq, che è il terreno di scontro per ora più tangibile fra iraniani e statunitensi. Insieme a loro, i militari americani (ed europei) dispiegati nell’intero quadrante mediorientale, saranno ancora più a rischio.

L’influenza iraniana in Medio Oriente. Infografica IISS (International Institute for Strategic Studies)

 

In fondo, l’attacco missilistico via drone che ha ucciso il Generale Soleimani (e insieme a lui Abu Mahdi Al Muhandis, il numero due iracheno-iraniano degli Hashd al Shaabi iracheni filo-Teheran, nonché capo della milizia Kataib Hezbollah che aveva assaltato il 31 dicembre l’ambasciata USA di Baghdad), è solo l’ultimo anello, il più destabilizzante, di un’escalation iniziata nel 2018. Vi fu allora l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA, siglato nel 2015) e il ritorno di tutte le sanzioni USA contro l’Iran.

Da quel momento, Teheran ha scelto lo scontro asimmetrico riattivando, al contempo e con gradualità, il percorso della proliferazione nucleare: gli attacchi di matrice iraniana contro alcune petroliere nei pressi dello stretto di Hormuz e nel Golfo dell’Oman; l’abbattimento di un drone Usa nell’area di Hormuz (primavera-estate 2019); il sofisticato attacco con missili e droni contro le installazioni di Saudi Aramco vicino a Riyad (settembre 2019), rivendicato dagli huthi yemeniti ma partito, secondo gli americani, dal territorio iraniano; il lancio di un razzo su una base militare USA in Iraq nei pressi di Kirkuk (27 dicembre), costato la vita a un contractor privato statunitense.

Di certo, la perdita del Generale Soleimani, vero stratega militare dell’efficace ragnatela di Teheran in Medio Oriente, non potrà essere colmata: l’Iran ne sarà dunque danneggiato, anche se il suo successore e già numero due, Esmail Qaani, proseguirà nel solco del carismatico generale.

In attesa della probabile vendetta promessa da Teheran, Donald Trump ha tracciato la sua, politicamente pesantissima, linea rossa, minacciando di colpire 52 siti iraniani, anche “culturali” se Teheran attaccherà “americani e asset americani”. Nel frattempo, lo strike degli Stati Uniti contro Soleimani ha già prodotto conseguenze più che significative in Medio Oriente. Ma finora, sono tutte sfavorevoli a Washington e ai suoi alleati storici, sauditi e israeliani.

 

Iran e Iraq: il ricompattamento nazionalista del dissenso nelle piazze. Da alcuni mesi, iraniani e iracheni manifestavano contro i rispettivi governi, subendo una dura repressione (circa 300 morti in Iran secondo Amnesty International, almeno 450 morti in Iraq). L’aumento del prezzo del carburante aveva riacceso la rabbia degli iraniani asfissiati dall’inflazione post-sanzioni e le autorità si erano affrettate a oscurare internet; gli iracheni, anche sciiti, stanchi del corrotto e inefficiente sistema politico confessionale post-2003, gridavano “Iran fuori” e davano alle fiamme le sedi consolari di Teheran a Najaf e Karbala.

Adesso, il “martirio” di Soleimani può ricompattare in senso nazionalista i due campi, sia all’interno che tra di loro: esso devia, almeno temporaneamente, la rabbia degli iraniani dal proprio governo verso gli Stati Uniti, e quella degli iracheni dall’interferenza dell’Iran verso quella degli Stati Uniti, che hanno colpito Soleimani e Al Muhandis in territorio straniero. Significativa, in questo senso, la folla radunatasi per l’omaggio funebre a Soleimani ad Ahvaz, capoluogo del Khuzestan iraniano (che ospita la minoranza di etnia araba), spesso teatro di proteste anti-governative.

 

L’impotenza dell’Arabia Saudita: le trappole di un’alleanza. Riyad ha già conosciuto il lato più sfuggente dell’alleato Trump, che non ha reagito in sua difesa – al di là delle dichiarazioni e dell’invio di truppe nel regno per rafforzarne soprattutto la difesa aerea –  dopo l’inedito e micidiale attacco a Saudi Aramco, capace di dimezzare per due settimane la produzione petrolifera del regno. L’Arabia Saudita, come e più delle monarchie vicine rischia – sul proprio territorio – di rimanere intrappolata nei danni collaterali delle scelte di Washington, anche se i sauditi hanno a lungo assecondato l’escalation della tensione con Teheran.

Va letto in questo senso il comunicato dell’agenzia di stampa ufficiale saudita che invita tutti alla misura (“self-restraint”); lo stesso si può dire per il giro di consultazioni tra Londra e Washington che si appresta a fare Khaled bin Salman Al Saud, vice ministro della Difesa e fratello minore del Principe Mohammed bin Salman, l’uomo che sta gestendo la trattativa, ormai a rischio, fra sauditi e ribelli huthi in Yemen. Riyad ha sottolineato di non essere stata consultata prima del raid contro il generale iraniano, quasi a prenderne le distanze: il regno, consapevole della propria vulnerabilità anche geografica, ha compreso che la difesa degli interessi americani diretti, e degli americani all’estero, sembra l’unico punto capace di muovere all’azione Trump l’isolazionista.

 

Le monarchie del Golfo ancora in ordine sparso con l’Iran. Dopo l’uccisione di Soleimani, il ministro degli esteri del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, si è recato per primo in visita a Teheran, per discutere di “sicurezza regionale”. La mediazione di Qatar, Kuwait e Oman, che hanno rapporti diplomatici con l’Iran, può essere utile anche ai sauditi per avviare una de-escalation nel Golfo, così come il ruolo pragmatico, nonché apripista, degli Emirati Arabi Uniti (in particolare di Dubai).

La visita del ministro qatarino in Iran testimonia, però, che il disgelo avviato con Riyad dopo oltre due anni di rottura delle relazioni diplomatiche non scalfisce le nuove alleanze geopolitiche di Doha. In tale contesto, Bahrein e soprattutto Arabia Saudita appaiono in cima alla lista dei possibili luoghi della vendetta iraniana.

 

Huthi e Israele: tensione in crescita nel mar Rosso. Il triangolo del Mar Rosso fra Yemen, Arabia occidentale (quella degli investimenti turistici) e Israele potrebbe diventare uno dei teatri della vendetta iraniana. La tensione verbale fra huthi yemeniti e Israele è in aumento da qualche mese: gli huthi hanno più volte minacciato Israele di attacchi, e da parte sua il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato pubblicamente l’Iran di sviluppare missili di precisione capaci di colpire Israele dallo Yemen. Il leader del movimento-milizia yemenita sostenuto da Teheran, Abdel Malek Al Huthi, non ha usato la parola “vendetta” nel comunicato ufficiale di condoglianze per Soleimani, ma l’ufficio politico degli huthi l’ha lasciata intendere.

Pur essendo l’anello più esterno delle milizie sciite pro-Iran, gli huthi hanno già dimostrato, specie in occasione dell’attacco a Saudi Aramco, di saper giocare di sponda con Teheran, anche per accrescere il peso negoziale al tavolo diplomatico con i sauditi in Yemen. Dunque Israele deve guardarsi, oltre che dal Libano meridionale bastione degli Hezbollah, anche dal nuovo fronte yemenita.

 

La NATO sospende il training in Iraq: spazio geopolitico per Russia, Turchia (e “Stato Islamico”). Il 4 gennaio, la NATO ha annunciato la sospensione della missione di addestramento e di defense capacity building delle forze armate irachene in chiave anti-“Stato Islamico”. In contemporanea, la Coalizione Globale anti-ISIS, a guida statunitense, ha comunicato che sospenderà  le operazioni per motivi di sicurezza. Fin troppo facile immaginare nuove opportunità, di reclutamento, territoriali e operative, per i jihadisti siro-iracheni. Soprattutto, l’inevitabile stand-by della NATO in Iraq  e il voto del parlamento iracheno che impegna  il governo a chiedere il ritiro delle truppe straniere, quindi anche americane, dal paese, potrebbe schiudere  nuovi scenari in Iraq.

Le principali mosse del Generale Soleimani in Iraq, Libano e Siria tra il 2012 e il 2018. Infografica IISS

 

La mozione parlamentare è stata presentata proprio dall’ala politica degli Hashd al Shaabi filo-Teheran: sempre più nell’orbita iraniana, l’Iraq potrebbe persino aprirsi, nel medio e lungo periodo, alla presenza, anche militare, di Russia e persino Turchia, dato che la mozione votata pare riferirsi alle sole forze militari stranieri presenti al momento in Iraq. Proprio Mosca (e in modo più discreto Pechino) potrebbe proporsi come l’interessato broker di uno stop all’escalation fra Washington e Iran. Il canovaccio di ´spartizione geopolitica` della Siria, quello degli accordi di Astana negoziati fra iraniani, russi e turchi, dovrebbe già essere di monito. Così come l’attivismo militare di Mosca e Ankara in Libia (seppur qui su fronti opposti, rispettivamente per Haftar e Al Serraj). Una tale evoluzione sarebbe uno smacco geopolitico per gli statunitensi ma anche per gli europei.

 

Milizie e religione: il richiamo del “martire”. C’è una dinamica, più profonda, che non può essere trascurata, perché potrebbe assumere una connotazione politica. Gli iraniani, e gli sciiti duodecimani più in generale, hanno un profondo legame, religioso e culturale, con la figura del “martire”, un topos che risale al martirio dell’Imam Husayn a Karbala nel 680 d.C. Dopo l’uccisione, Soleimani è divenuto uno “shahid” (“martire”) per i suoi: “la mitizzazione di questo super generale, fatta dai suoi nemici, può spingere all’emulazione del ‘martirio’”,  come notato da Riccardo Redaelli.

Le milizie del Medio Oriente odierno (a parte quelle jihadiste) si caratterizzano spesso per pragmatismo, identità locali, interessi finanziari, non per motivazioni religiose. Non è tuttavia da escludere che, per la galassia sciita filo-Iran, il “sacrificio” di Soleimani, unito alla vendetta contro gli Stati Uniti, diventi un vettore di legittimazione popolare per i gruppi armati, nonché un carburante per l’attivismo ´fai da te` dei singoli, al di là dei disegni di Teheran.

 

La Casa Bianca: complessità, visione e sangue freddo. Per l’Amministrazione Trump, l’anno elettorale si apre sotto una fitta nube mediorientale. Il presidente che sembra essere “in scontro con la complessità” vuole smetterla con la partecipazione americana alle, parole sue, “guerre stupide e senza fine” dell’area, portando a casa i soldati (come fatto dalla Siria e dall’Afghanistan). Ma proprio Trump si trova troppo spesso, per un mix di decisioni sbagliate e strategia mancante, non solo ad aumentare il numero delle proprie truppe all’estero (è stato così dopo gli attacchi alle petroliere e a Saudi Aramco e ora nel dopo-Soleimani), ma anche ad aprire nuove faglie di crisi perdendo, sovente, d’influenza (vedi Siria e Afghanistan) a beneficio dei rivali Russia, Iran, Cina e ormai anche Turchia.

Con l’attacco riuscito a Soleimani, Washington ha dimostrato di avere la capacità, militare e di intelligence, di poter fare ancora la differenza in Medio Oriente; ma di non avere – cosa assai più grave in termini globali – la visione strategica di ciò che sia più opportuno fare (o non fare) per proteggere la stabilità del quadrante. Nonché per tutelare la sicurezza degli interessi americani e degli alleati nella regione. Paradossalmente, la mossa del ´sangue freddo`, oltre a quella della vendetta, è ora nelle mani dell’Iran.