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Il senso della Cina per il nucleare: energia pulita, ascesa militare e Corea del Nord

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La Cina è – insieme a Stati Uniti, Russia, Regno Unito e Francia – uno degli Stati “nucleari” riconosciuti dal Trattato di non proliferazione in vigore dal 1970; aderisce dunque formalmente ai suoi tre principi: disarmo progressivo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare. Nelle strategie di politica interna ed estera di Pechino, l’energia atomica per uso sia civile sia militare riveste comunque un ruolo primario.

Da un lato Pechino cerca infatti di arginare il problema dell’inquinamento puntando su energie più “pulite”, tra cui proprio il nucleare. Dall’altro, in campo militare, sviluppa nuove tecnologie per migliorare la sua capacità di deterrenza. È proprio quest’attività a sollevare la preoccupazione degli Stati Uniti, principale antagonista della Cina.

Washington e Pechino sembrano però trovare un punto d’incontro sulla necessità di limitare le aspirazioni della Corea del Nord di Kim Jong-un. I suoi recenti test nucleari (nel gennaio 2016, per la quarta volta nell’arco di dieci anni di test) hanno aumentato la tensione nel quadrante Asia-Pacifico e spinto la Cina ad approvare sanzioni economiche contro Pyongyang all’ONU. Eppure, Pechino non può fare a meno del suo alleato coreano.
La riduzione dell’inquinamento

La Cina, il paese più inquinante al mondo, punta a ridurre le altissime emissioni di CO2 continuando però a crescere economicamente, seppur in misura inferiore rispetto al passato. Nel 13° piano quinquennale, con la strategia per lo sviluppo per il periodo 2016-2020, sono elencati i cambiamenti da porre in essere per perseguire un futuro più “verde”: in primis ridurre il consumo di carbone (prima fonte energetica del Paese) dal 64% al 62% entro i prossimi 4 anni e aumentare l’utilizzo di energia non fossile, da portare al 15% dei consumi totali nel 2020 e al 20% entro il 2030.

L’energia solare, eolica, idroelettrica e nucleare avranno perciò un ruolo di rilievo. La Cina ha 30 centrali nucleari in funzione (capacità totale di 28,3 gigawatt, poco più di un quarto di quella americana), la maggior parte delle quali concentrata sulle coste, e altre 26 in costruzione. Pechino vuole riprendere la progettazione degli impianti anche nella Cina interna, sospesa perché considerata pericolosa all’indomani della tragedia di Fukushima. In particolare si temeva che in caso di guasto le risorse idriche sarebbero state contaminate, danneggiando milioni di abitanti.  Una parte dei cinesi nutre ancora questa preoccupazione.

Secondo i piani, nel 2020 il paese avrà 90 reattori. Pechino progetta anche la costruzione di 20 centrali nucleari galleggianti per fornire energia anche a luoghi più remoti. La prima potrebbe essere dislocata sull’isola di Hainan, che si affaccia sullo strategico Mar Cinese Meridionale.

La Repubblica popolare inoltre vuole esportare la propria tecnologia nucleare – combinando il know-how accumulato in questi anni in patria con i suoi bassi costi del lavoro e del capitale. Alla fine del 2015, infatti, la Cina si è accordata con il Regno Unito per la costruzione di un impianto nucleare di nuova generazione a Hinkley Point (Somerset) in collaborazione con la francese Edf. Pechino e Londra stanno negoziando investimenti per la creazione di altre due centrali.

Inoltre, lo scorso febbraio, due imprese statali, la China General Nuclear Power (CGN) e la China National Nuclear Power hanno sviluppato una joint-venture per vendere all’estero il reattore cinese di terza generazione Hualong one. Quattro reattori di questo tipo sono già in costruzione nel Fujian e nel Guangxi (Cina del Sud) e si sta prendendo in considerazione la loro realizzazione nel Regno Unito, in Pakistan e in Argentina.

La deterrenza nucleare cinese

Come afferma il Libro bianco della Difesa del 2015, Pechino si attiene formalmente alla politica del “no first use” nucleare e alla strategia di “difesa attiva”. Tradotto, come recita lo stesso Libro bianco: “Non attaccheremo se non saremo attaccati ma certamente attaccheremo se saremo attaccati”.

Secondo lo Stockholm research institute (Sipri) la Cina possiede 260 testate nucleari: il numero è nettamente inferiore rispetto alle 7.500 della Russia e alle 7.260 degli USA. Ciò la colloca al quarto posto tra i 5 Stati “nucleari” riconosciuti dal Trattato – con la Francia in terza posizione (300 testate). Il rapporto annuale del Dipartimento del Difesa americano afferma che ad oggi la Repubblica popolare ha tra i 75 e i 100 missili balistici intercontinentali (inclusi quelli dotati di testate multiple indipendenti) e circa 1.200 missili balistici di breve gittata. La Marina sarebbe dotata invece di 5 sottomarini nucleari.

Pechino punta contestualmente a migliorare anche la propria tecnologia missilistica nucleare, come parte del processo di modernizzazione dell’Esercito popolare di liberazione, cioè le forze armate cinesi. Fonti internazionali sostengono che vi sono ritardi nello sviluppo di alcuni nuovi missili a causa delle prestazioni ancora non adeguate delle componenti elettroniche di produzione nazionale.

La Cina starebbe anche sviluppando cacciabombardieri di lunga gittata, in grado di portare armi convenzionali e nucleari. Il loro utilizzo permetterebbe a Pechino di disporre della cosiddetta “triade nucleare”, ovvero di sistemi di lancio per terra, mare e aria.

Il dossier coreano

Nella prima settimana di maggio si è svolto il 7° Congresso del Partito dei lavoratori di Corea (il primo in 36 anni), di cui il dittatore è stato ufficialmente nominato presidente (con un passaggio cerimoniale, visto che ricopre già la carica di Presidente del paese dal 2011). Nell’occasione ha comunque affermato che Pyongyang agirà da potenza nucleare “responsabile”, vale a dire utilizzando il proprio arsenale in caso di diretta violazione della sovranità nazionale e di proliferazione nucleare: una formula simile a quella utilizzata dalla Cina.

Il presidente cinese Xi Jinping si è congratulato con il suo omologo nordcoreano per la nomina. Secondo la versione del messaggio riportata dai media cinesi, Xi non ha usato l’appellativo “compagno” per rivolgersi al suo alleato socialista – come aveva invece fatto in passato. Pyongyang afferma in realtà il contrario. In ogni caso, il mancato utilizzo del termine “compagno” è interpretato da alcuni come il segno di una certa freddezza di Xi verso Kim, proprio a causa dei test nucleari  degli ultimi mesi.

Il 6 gennaio scorso la Corea del Nord ha affermato di averne condotto uno con un ordigno termonucleare – considerato a livello internazionale il quarto esperimento nordcoreano dall’inizio del programma di sperimentazione nel 2006. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha dichiarato che la Cina si oppone fermamente a tale scelta. Circa un mese dopo la Corea del Nord ha testato un razzo con componenti idonee a un missile balistico intercontinentale. Poi ad aprile ne ha sperimentato (fallendo) uno lanciato da sottomarino nel Mare dell’Est.

I primi due eventi hanno spinto Pechino a votare favore di nuove sanzioni economiche contro Pyongyang presso il Consiglio di sicurezza ONU a marzo. Le misure punitive sono piuttosto rigide e colpiscono tra gli altri il settore del carbone (che viene venduto tutto alla Cina), delle imbarcazioni, delle armi e dei beni di lusso. L’obbligo di ispezione per tutti i carichi da e per la Corea del Nord conferma l’importanza del ruolo della Cina, poiché il commercio terrestre nordcoreano passa quasi tutto attraverso il suo territorio. Del resto sul piano economico la Corea del Nord dipende quasi totalmente da Pechino.

Approvando le sanzioni, la Cina ha voluto ribadire alla Corea del Nord che se volesse potrebbe chiudere i rubinetti in qualsiasi momento. Secondo alcuni report, sembra che le autorità cinesi stiano applicando seriamente le sanzioni, e da subito; tuttavia, ci sono forti dubbi sul fatto che Pechino intenda interrompere del tutto i rapporti commerciali con Pyongyang.

Del resto, in termini geostrategici la Cina non può far a meno della Corea del Nord. Pechino ha bisogno di preservare l’esistenza di questo paese perché svolge il ruolo di cuscinetto con la Corea del Sud, alleata degli Usa – Seul ospita circa 28 mila soldati americani. Per la Repubblica popolare, il crollo del regime di Pyongyang sarebbe un problema: potrebbe determinare una crisi umanitaria tale da riversare milioni di nordcoreani sul proprio territorio e consentire ai soldati americani di giungere a ridosso del confine cinese.

Per questo Pechino è favorevole alla ripresa dal dialogo a sei (i “six party talks” che coinvolgono Cina, USA, Corea del Nord, del Sud, Russia e Giappone) volto alla denuclearizzazione della penisola coreana. Insomma, per Pechino l’ideale sarebbe una Pyongyang sufficientemente minacciosa da tenere gli americani lontani dai propri confini, ma che concretamente non ponesse mai in essere la sua minaccia.