I nuovi equilibri in Asia e i punti di forza di Washington
L’Asia e il quadrante Indo-Pacifico si caratterizzano per l’asimmetria tra gli obiettivi e le linee strategiche di Stati Uniti e Cina: ciò lascia aperta la strada sia a un confronto sempre più teso sia a una pur competitiva e vigile convivenza. Esiste infatti un margine di reciproco adattamento che tanto più si allarga quanto più le scelte politiche delle due capitali saranno indirizzate a (e capaci di) sfruttare i rispettivi, punti di forza (palesi e in larga misura immodificabili) piuttosto che ad acquisire ulteriori vantaggi e ad erodere le potenzialità dell’avversario. In questo contesto gli USA partono da una posizione di chiaro privilegio per almeno tre motivi.
In quanto creatori e difensori dell’attuale ordine mondiale e delle istituzioni che lo sostengono, gli USA godono di una “legittimità percepita” assai maggiore dei cinesi. Specialmente ora che l’Amministrazione Trump attribuisce scarso peso a una generalizzata difesa dei diritti umani, non hanno motivo di temere la “contromisura” cinese rappresentata dalla tradizionale rigida non-ingerenza negli affari interni. In secondo luogo gli americani possono vantare una superiorità militare per quanto riguarda sia gli armamenti, sia basi sicure (da Guam alle Filippine con l’aggiunta di una serie di accordi di attracco come quello con Singapore). Infine, Washington dispone di un’alleanza, quella col Giappone, di solidità e importanza strategica incomparabili con qualsiasi altra partnership bilaterale in Asia, sebbene a quello con il Giappone si aggiungano i trattati di sicurezza in vigore con Corea del Sud, Filippine e Thailandia.
E’ vero che si trascinano da tempo tra Washington e Tokyo screzi sul burden sharing, acuitisi con l’attuale amministrazione: a giugno Trump si è spinto a definire iniquo il Trattato stesso (del 1951 e rinnovato nel 1960) che regola obblighi e prerogative delle due parti. Ma in realtà l’alleanza con il Giappone non può essere messa in discussione. E’ da sempre caposaldo della presenza militare americana in Asia. Non è riconducibile a una specifica crisi come l’alleanza tra USA e Corea del Sud, in teoria barattabile col Trattato di pace con Pyongyang e l’unificazione della penisola. Riesce perfino a rafforzarsi, perché inquadra le ambizioni di Tokyo, non prive di motivazioni nazionalistiche, nella strategia di fondo americana.
La stessa provocazione di Trump va riletta nel senso che la situazione asiatica è in rapido movimento e che alleanze e strategie devono essere con altrettanta rapidità adeguate. Lo ha detto esplicitamente David Stilwell, nei giorni scorsi in Giappone, subito dopo essere stato nominato vicesegretario di Stato per Asia Orientale e Pacifico. Con Tokyo finora si è riusciti a quadrare il cerchio facendo combaciare esigenze, aspettative e propaganda degli uni e degli altri. Sono ricomponibili anche le divergenze sull’Iran, in questi ultimi mesi in evidenza: da un lato col fallito tentativo del premier Abe Shinzo di accreditarsi come mediatore, dall’altro con la richiesta americana di una coalizione di volenterosi nello stretto di Hormuz e dintorni, palesemente irricevibile da Tokyo sulla base degli attuali vincoli costituzionali.
Più problematici sono l’alto tasso di litigiosità con la Corea del Sud – proprio ora ai massimi livelli, con Washington che si rifiuta di fare da paciere – che impedisce un pieno coordinamento militare, e lo strisciante tentativo americano di vincere il tabù nipponico del no al nucleare. Trump all’inizio del suo mandato gettò a modo suo un’esca, dichiarando che gli equilibri in Asia sarebbero stati meglio garantiti da un Giappone trasformato in potenza nucleare. Ora la questione riaffiora sulla base di una meditata revisione strategica che, come ha spiegato il 16 luglio Mark Esper, Segretario alla Difesa in pectore, potrebbe obbligare Tokyo ad accettare l’idea di installare sul proprio territorio missili a testata nucleare a medio raggio. Il presupposto è che, a causa dei “significativi passi avanti cinesi nei sistemi d’arma e in particolare nella gittata e nella precisione dei missili”, le basi in Giappone, da Kadena (Okinawa) a Yokosuka (Kanagawa), sono diventate facili obiettivi per gli ordigni del nemico e non costituiscono più un valido deterrente.
Gli USA difettano, invece, nella capacità di esercitare un’influenza economica condizionante. Per contrastare quella cinese sempre più spesso fanno affidamento sugli amici, in primo luogo il Giappone, che ha sia i mezzi finanziari sia l’esperienza, sia nell’ultimo periodo anche la precisa volontà di presentarsi come credibile alternativa alla Cina. I mezzi impiegati da Pechino, attraverso una serie di variegati strumenti che vanno dall’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) alla Belt and Road Intiative, dalle Aree di libero scambio alla SCO (Organizzazione di cooperazione di Shanghai) sono però superiori non solo in termini finanziari. La penetrazione economica infatti è per la Cina anche il primo punto della “sicurezza nazionale”. Si tratta di garantirsi adeguati approvvigionamenti energetici con una rete di convergenze politiche e infrastrutture, ovvero i “corridoi economici” verso i mari caldi e l’Asia centrale.
Un boomerang per Washington potrebbe rivelarsi anche il disimpegno militare dall’Afghanistan se, per realizzarlo, dovessero essere raggiunti accordi al ribasso coi Taleban, vantaggiosi solo per gli USA e non per i loro sostenitori locali. Ritirare le truppe avrebbe il pregio di indirizzare altrove ingenti risorse ma confermerebbe l’inaffidabilità degli americani, in qualche modo già sottintesa nella sempre più pressante richiesta ai Paesi amici di contare più sulle proprie forze che sull’ombrello della superpotenza.
A maggior ragione la trattativa coi Taleban crea preoccupazioni nei Paesi della regione che hanno la necessità di contrastare il terrorismo islamico. Li spinge verso la Cina, trasformata a costo zero in nuovo portabandiera dell’anti-terrorismo, e li induce, ancora più di quanto già facciano, ad abbandonare al loro destino i correligionari uiguri dello Xinjiang. Un trend in questa direzione si è già manifestato recentemente attraverso una lettera inviata al Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani in difesa della Cina e firmato da molti paesi musulmani, dalla Malaysia all’Arabia Saudita. Perfino la Turchia di Recep Tayyip Erdogan appare in questa fase propensa a optare per l’amicizia con Pechino e a dimenticarsi degli uiguri.
A questa situazione si sovrappone la guerra commerciale dichiarata da Trump alla Cina, che oltre a costituire un fattore di disturbo rappresenta un elemento di novità strategica. Indica che è finita l’epoca in cui a Washington l’interesse economico/commerciale veniva sacrificato in nome della sicurezza e della diplomazia. Ne è responsabile l’ideologia dell’America First ma anche un’evoluzione di fondo sia della globalizzazione sia del peso specifico di molti Paesi asiatici (non solo Giappone e Corea del Sud), il cui sviluppo non ha più bisogno di essere incoraggiato con artifici politici.
Forse l’esempio più chiaro è fornito dall’India. Sotto le amministrazioni di G.W. Bush e Barack Obama, riconoscendo l’importanza dell’India come baluardo anticinese (e per contrastare la tradizionale propensione di New Delhi a flirtare con Mosca), Washington aveva fatto concessioni in campo commerciale e nucleare. Trump attribuisce all’India altrettanto se non superiore valore strategico dei suoi predecessori. Nondimeno ha appena aperto una guerra commerciale in piena regola contro il colosso asiatico, depennandolo dalla lista dei Paesi inseriti nel “Sistema generale di preferenze” e istituendo una serie di barriere tariffarie, alle quali New Delhi ha subito risposto con analoga moneta. La qual cosa non ha comunque impedito a Trump e al premier indiano Narendra Modi di ostentare (al G20 di Osaka di fine giugno) amicizia e sintonia di intenti.
In linea di massima lo scorporo tra la sfera commerciale e quella diplomatico/militare voluto da Trump sembra funzionare. Presenta però varie zone grigie, con possibili effetti dirompenti sugli equilibri regionali e sul gioco delle alleanze. La prima è costituita dalla minaccia di sanzioni indirette, come quelle che rischiano i Paesi che commerciano con l’Iran, in testa proprio due alleati strategici come Giappone e India. La seconda zona grigia riguarda il commercio di armamenti, e proprio l’India con l’acquisto del sistema missilistico di difesa russo S-400 lo ha messo di recente in evidenza. A tale scelta ha fatto seguito la minaccia americana di applicare sanzioni, che prefigura uno scontro strategico e diplomatico.
La versione riveduta e corretta del non allineamento cui si ispira l’India è infatti compatibile col contenimento della Cina e con l’adesione al QUAD (il “quadrilatero” con USA, Giappone e Australia) ma non con la rottura con la Russia, da sempre ritenuta un Paese amico. E il caso non è isolato. Si sta ripetendo con la Turchia, che si è dotata degli S-400 e ha sfidato Trump a comminarle sanzioni. Potrebbe creare impaccio anche nei futuri rapporti col Giappone, dove Abe sta facendo ogni sforzo per aprirsi la strada a un trattato di pace con Mosca. Una prova, se mai ce ne fosse bisogno, che la Russia è una mina vagante che potrebbe scoppiare dove meno ci si aspetta e scombinare il puzzle asiatico.