Alcune considerazioni sul voto europeo
Le elezioni del 2019 per il rinnovo del Parlamento europeo – se viste da una prospettiva di lungo periodo – non marcano un grande cambiamento per le istituzioni UE. Ma le novità emerse nel voto di maggio sono numerose, diffuse e testimoni di trasformazioni profonde, anche se dalle conseguenze non immediate.
Qualche considerazione generale
Tra i gruppi parlamentari, quello che acquista più rappresentanza è l’ALDE (liberali, 108 seggi), seguito dalla destra nazionalista (EAPN) e dai Verdi (77 seggi). Quelli che perdono più rappresentanza sono i Popolari (PPE), seguiti dai Socialisti e Democratici (S&D). Tuttavia, questi ultimi restano rispettivamente il primo (175) e il secondo (149) gruppo più grande in parlamento.
Il successo dei liberali si deve a una crescita a macchia di leopardo nel continente, e alla diffusione in Paesi dove prima erano assenti, come la Francia grazie alla lista di Emmanuel Macron (22,4%), o la Spagna che ha visto l’esordio di Ciudadanos (12,2%). Nella destra nazionalista c’è invece il problema di armonizzare forze diverse tra loro, nonostante la vittoria in Italia, in Francia (ma il partito di Marine Le Pen porta a casa due seggi in meno che nel 2014) o il discreto risultato in Austria. Le posizioni anti-UE dei partiti nazionalisti, in questi ultimi anni, sono comunque state smussate: molte inchieste hanno registrato un aumento dei cittadini favorevoli alla permanenza del loro Paese nell’Unione Europea in quasi tutti gli stati membri – una tendenza che ha pesato. I Verdi crescono oltre le aspettative nel cuore del continente, a cominciare dal successo oltre le previsioni registrato in Germania (20,7%), e i risultati positivi francesi e britannici.
Per la prima volta dal 1979, però, la somma dei seggi di PPE e S&D resta sotto la soglia della maggioranza assoluta (376 su 751). E’ la fine, anche al Parlamento europeo, di un lungo ciclo. S&D sperava nella partecipazione last-minute del Labour per limitare i previsti danni, ma il partito di Jeremy Corbyn è restato schiacciato nella dialettica Brexit/anti-Brexit e ha raccolto un misero 14%, rispetto al 40% delle politiche del 2017. Molto deludente anche il risultato della SPD in Germania (15,8%), ultimo tratto di una parabola discendente che non si arresta. Brillano invece i socialisti spagnoli oltre il 30%, che diventano il partito più grande del gruppo, mentre l’ex PS francese non esce dal coma profondo in cui è caduto negli ultimi anni: è diviso in due formazioni che insieme superano di poco il 9%.
La CDU tedesca della nuova leader Annegret Kramp-Karrenbauer, sia pure con un risultato non eccellente, 28,9% in Germania, resta il partito più rappresentato e (anche se indebolita) la colonna portante del gruppo Popolare. Il PPE perde molto del suo radicamento in Europa occidentale, mentre ottiene risultati discreti nella parte centro-orientale del continente, dov’è un soggetto importante della politica nazionale pressoché ovunque, dalla Polonia all’Austria (dove il premier Sebastian Kurz ha però appena perso la guida del governo), dalla Repubblica Ceca alla Romania. Da segnalare anche la vittoria in Grecia, dove Nea Dimokratia si prende una rivincita sul premier Alexis Tsipras.
La somma della destra nazionalista arriva a 175 seggi se includiamo Fidesz, altrimenti 162. Il partito del corteggiatissimo premier Viktor Orban ha inanellato un ennesimo trionfo in Ungheria, con il 52%, ma non ha ancora deciso la sua futura collocazione. Con la Brexit e l’uscita degli anti-UE britannici entro il 31 ottobre, dovrebbe arrivare a 133. I 29 seggi della Lega (34,3% dei voti in Italia) fanno del partito di Matteo Salvini la forza leader di questa fazione – anche se i seggi ottenuti dal Brexit Party di Nigel Farage sono altrettanti, mentre i tedeschi di Alternative fuer Deutschland si fermano a 11. Del resto però non è ancora chiaro se tutti i partiti di questo orientamento si uniranno nello stesso gruppo: esistono delle divergenze fondamentali tra molte forze, come tra la destra nazionalista polacca o svedese e quella italiana o francese sui rapporti con la Russia. E non sarà facile armonizzare gli interessi di inglesi e francesi, ad esempio.
La sinistra radicale registra la perdita di una decina di seggi. Come forza egemone resta la greca Syriza, seppur sconfitta (23,7%): il successo nel Belgio francofono regala solo un seggio, mentre sono deludenti i risultati ottenuti in Germania dalla Linke, in Francia dalla France Insoumise, in Spagna da Podemos. Un seggio ottenuto in Regno Unito dai repubblicani irlandesi del Sinn Féin che si presentano in Ulster (il loro 0,6% frutta grazie all’assenza di sbarramento), e nessuno in Italia completano il quadro.
La partecipazione al voto (escluso il Regno Unito) è stata del 51% nei 27 Stati Membri, il dato migliore degli ultimi vent’anni. Restano grandi le differenze tra paesi; tuttavia, la tensione politica anche forte attorno tanto alle questioni continentali quanto a quelle locali ha spinto alle urne più elettori.
Meccanica istituzionale
Le sessioni del nuovo parlamento partiranno il 2 luglio; prima, i partiti si dovranno accordare per formare i gruppi parlamentari. Si vedrà se le forze della destra nazionalista riusciranno a coalizzarsi tutte nello stesso gruppo, se questo includerà Fidesz (in uscita dal PPE), come si collocheranno gli eurodeputati britannici, e dove andranno partiti non facilmente collocabili come il Movimento Cinque Stelle (Italia) o i Pirati (Repubblica Ceca).
C’era una certa attesa per il risultato del partito di Emmanuel Macron, il presidente francese che negli ultimi anni ha lanciato profonde e controverse proposte di riforma dell’Unione Europea. La Republique en marche! non ha ottenuto un risultato memorabile: arriva (di poco) dietro al Rassemblement National di Marine Le Pen, e riceve all’incirca la stessa percentuale di consensi del candidato Macron alle presidenziali francesi del 2017.
Ma i 23 seggi su cui LRM potrà contare al parlamento la rendono certamente la forza egemone dentro lo schieramento dell’ALDE, che in totale di seggi ne ha 109; i 17 deputati britannici potrebbero tra l’altro andarsene presto, anche se i deputati di area mitteleuropea, tradizionalmente di sensibilità comune, tutti sommati sono circa una trentina. Il partito di Macron potrebbe essere un ospite scomodo nel gruppo finora egemonizzato dall’attivo Guy Verhofstadt, ma il politico fiammingo ha fatto sapere che la truppa del presidente francesi sarà accolta a braccia aperte. Si tratta di una circostanza importante, perché non avendo Popolari e Socialisti da soli la maggioranza all’Eurocamera, il voto dei deputati Liberali diverrà determinante per le scelte del parlamento.
In teoria, per il sistema degli Spitzenkandidaten adottato nella scorsa elezione, copiato dal sistema elettorale tedesco, il capolista del gruppo più votato sarebbe stato automaticamente nominato presidente della nuova Commissione. Era andata così con Jean-Claude Juncker nel 2014. Anche stavolta il PPE è il gruppo che globalmente raccoglie più deputati, ma non sembra però che il capolista, il tedesco Manfred Weber, membro della CSU bavarese, riuscirà a succedere facilmente a Juncker. Da un lato c’è la sconfitta generale del suo gruppo: il PPE resta sì il più votato, ma ha perso una quarantina di seggi; dall’altro c’è anche la quasi totale irriconoscibilità degli Spitzenkandidaten al grande pubblico europeo, in un periodo in cui le istituzioni UE pagano più che mai la loro lontananza dalla vita quotidiana del continente.
Infine, è probabile che i vincitori Liberali (tra i quali emerge la figura dell’uscente commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager) e Verdi vorranno subito dare un segnale del cambiamento che la loro crescita può comportare per le istituzioni europee. Ad oggi, sono del PPE anche il presidente del Parlamento, Antonio Tajani di Forza Italia, e il presidente del Conisglio Europeo, il polacco Donald Tusk.
Geografia del voto
In grandi paesi come la Francia, l’Italia o il Regno Unito, la spaccatura prevalente nell’elettorato è stata quella tra “globalisti” e “localisti”. Nel nucleo europeo attorno alla Germania (una Mitteleuropa che include anche i Paesi Baltici), invece, prevale la vecchia frattura tra conservatori e progressisti ma aggiornata ad etichette nuove, grazie all’ascesa di formazioni nate da poco o rinnovate. Una sinistra dalle tinte protezioniste sociali, spesso radicalizzata rispetto agli anni pre-crisi, resiste nell’Europa meridionale, soprattutto nella penisola iberica e in quella balcanica. Nel gruppo di Visegrad la destra nazionalista ha messo radici profonde, cancellando ormai la parentesi dell’influenza sovietica, anche se articola la sua proposta in maniera diversa. Il risultato elettorale – insieme a molte altre dinamiche – pone l’Italia a metà strada tra l’Occidente e l’Europa centro-orientale.
Tra le spaccature sociali rese evidenti dal voto c’è ancora una volta la frattura generazionale, già emersa in maniera eclatante al referendum su Brexit. In Francia, i Verdi sono stata la forza politica più votata (seguiti dal Rassemblement National) nella fascia 18-35, con un risultato doppio rispetto alla media (27% contro 13% generale). Non solo: l’aumento della partecipazione elettorale si è concentrato in gran parte in questa classe d’età (+13%). Un fenomeno molto simile si è registrato in Germania: il 34% degli under 35 ha votato i Grünen, mentre CDU e SDP registrano i loro score migliori tra gli ultrasettantenni. In misura minore, il successo generazionale dei Verdi si ritrova anche nel resto dell’Occidente europeo: Belgio, Paesi Bassi e Regno Unito. Tuttavia, se molti media dell’Europa occidentale hanno salutato in questo un “effetto Thunberg”, bisogna sottolineare allo stesso tempo che in Europa meridionale e centro-orientale non c’è stata una particolare partecipazione maggiore dei giovani, né i partiti ambientalisti sono stati premiati più del solito – in queste parti del continente restano anzi irrilevanti.
In particolare, il voto giovanile sembra sensibile a proposte chiare e riconoscibili, connesse con il proprio modo di pensare. Se questo ha significato una scelta per i Verdi in certi Paesi, si è tradotto invece per un premio alla destra nazionalista in altri, come Svezia o Fiandre. In altri casi ancora, come la Polonia, la partecipazione giovanile è restata sotto la media e non si è distinta, nel voto, per scelte diverse dal resto della popolazione. Una costante territoriale, invece, è quella che vede i partiti tradizionali della sinistra in difficoltà nel parlare a un elettorato che non sia maturo o anziano.
Come è andata formandosi negli ultimi anni, la frattura territoriale ha caratterizzato anche il voto europeo, con differenze relative tra paese e paese. La Francia è uno dei casi più interessanti, anche per cercare di situare con più esattezza i partiti negli orientamenti sociali, rispetto alla distinzione destra-sinistra. Il dato nazionale francese vede il partito di Marine Le Pen, il Rassemblement National, superare di poco (23,3 contro 22,4%) il partito di Emmanuel Macron, La Republique en Marche. Ma disaggregando il dato geograficamente, si scopre che il pieno dei voti di LRM arriva da Parigi e dalla sua agglomerazione – e lo stesso vale per i Verdi.
Nei comuni dei “grandi poli”, con più di 10.000 posti di lavoro, la differenza si assottiglia e lo score di Marine Le Pen si avvicina al dato nazionale: è una grande novità rispetto al passato, quando il Front National non aveva difficoltà solo a Parigi, ma anche in quasi tutte le grandi città francesi. In tutte le altre zone geo-economiche del paese – comuni medi, corona delle grandi città, corona delle città medie, zone rurali e piccoli comuni – il Rassemblement National è la forza più votata, piuttosto stabilmente, con un picco nelle città medie e nelle loro immediate vicinanze – zone di coltura privilegiata dei Gilet Gialli. Insomma, più che trovarsi una differenza tra voto urbano e voto “periurbano” e rurale, che comunque esiste, si riscontra un vero e proprio fossato tra il voto della capitale e quello del resto della Francia.
Il successo elettorale di Marine Le Pen, in conclusione, è più omogeneo sul territorio nazionale rispetto al passato – anche se non bisogna dimenticarsi che la percentuale dei suoi voti è in diminuzione sulle scorse Europee. Con la persistente, ma ormai quasi unica, eccezione di Parigi. Di contro, il consenso del presidente Macron e dei Verdi si concentra soprattutto nelle città, e tra queste soprattutto nella capitale.
Scenari e alleanze
Sommando l’ALDE e tutti i gruppi alla sua sinistra (S&D, Verdi, Sinistra Radicale) ci sarebbero i numeri per un’ipotetica maggioranza “arcobaleno” in parlamento. Le condizioni politiche però restano quasi impossibili. Più probabilmente la maggioranza che deciderà la nuova Commissione Europea farà perno, come in passato, sull’accordo tra PPE, S&D e ALDE, con la possibile aggiunta dei Verdi. D’altronde, la grande coalizione resta la soluzione politica preferita a Berlino. E gli accordi raggiunti a Bruxelles condizioneranno anche le alchimie politiche nazionali – lo si vedrà presto, ad esempio, in Spagna.
Con l’espulsione di Viktor Orban dal gruppo del PPE sembra anche tramontare definitivamente l’idea di un’alleanza tra centro-destra tradizionale e destra nazionalista. Intanto perché il paese che aveva messo in pratica questa ipotesi a livello governativo, l’Austria, ha visto saltare l’esperimento proprio alla vigilia del voto europeo, con la diffusione del video che ha portato alle dimissioni di Heinz-Christian Strache dal governo di Vienna. E poi perché gli altri partiti che in questo momento sono legati all’estrema destra da accordi locali, come il Partito Popolare spagnolo o Forza Italia, sono andati male nel voto europeo. L’ultima ma importante ragione è che, anche sommati, gli eurodeputati del PPE e quelli di tutte le formazioni alla sua destra non raggiungono la maggioranza assoluta.
Già negli ultimi anni, comunque, nel Parlamento europeo si sono prese decisioni sulla base di maggioranze variabili. Una tendenza che può confermarsi: S&D+ALDE su temi come giustizia e ambiente; alleanze centrate sul PPE o su soluzioni più conservatrici su buona parte dei temi economici.