Cuba: aspettando il cambiamento che ancora non c’è
Continuità è la parola chiave. #SomosContinuidad (cioè Siamo Continuità), è questo l’hashtag più usato dal presidente cubano Miguel Díaz-Canel su Twitter da agosto dell’anno scorso, quando ha deciso di entrare nel mondo dei social network anche lui. Ma “continuità” è stato anche lo slogan con cui la dittatura cubana ha promosso il referendum del 24 febbraio scorso che ha approvato la nuova Costituzione che sostituisce quella del 1976.
La parola non è stata scelta a caso visto che dopo un anno di dibattito la Constitución de la República de Cuba ha partorito il classico topolino, non solo dal punto di vista politico – il partito comunista cubano (PCC) rimane “l’unico” partito possibile e “la forza dirigente superiore della società e dello Stato” – ma anche da quello economico. Certo, introduce finalmente il concetto di proprietà privata, ma 12 anni dopo la svolta annunciata da Raúl Castro nell’ormai lontano 2007.
Il problema è che da allora la vita per i cubani non è migliorata affatto come speravano tanti di loro dopo l’appeasement tra Washington e L’Avana di fine 2014. “Proviamo qualcosa di diverso dopo cinquant’anni di politiche che non hanno funzionato” aveva detto in quel momento emblematico l’allora presidente statunitense Barack Obama che poi “fece l’impossibile per migliorare la situazione di chi vive a Cuba” spiega ad Aspenia online Carmelo Mesa-Lago, professore emerito di Economia e Studi Latinoamericani all’Università di Pittsburgh. In effetti il predecessore di Donald Trump era riuscito a prendere tutta una serie di importanti misure in pochissimo tempo: rimosse Cuba dalla lista dei paesi terroristi, riaprì l’ambasciata, eliminò le restrizioni all’invio di rimesse dall’estero, aprì il turismo a venti tipologie di viaggiatori, causando una vera e propria “alluvione” di turisti statunitensi negli anni successivi. Infine tentò di aprire completamente il commercio con l’Avana, ma non riuscì ad eliminare l’embargo perché all’epoca i Repubblicani controllavano i due rami del Congresso USA: la proposta del Presidente fu così lasciata cadere.
Cuba dal canto suo non cambiò assolutamente nulla perché, essendo una dittatura, non ha il problema della divisione dei poteri dello Stato: giudiziario, legislativo ed esecutivo sono un tutt’uno con il partito comunista. Nel marzo 2016 Obama fece il suo storico viaggio all’Avana dicendo che voleva togliere l’embargo, che l’aveva tentato ma non dipendeva da lui bensì appunto dal Congresso e che bisognava dunque pazientare; la risposta di Fidel Castro, pubblicata su Granma dal titolo “fratello Obama” (qui la versione italiana), fu allora durissima. In estrema sintesi l’ex líder máximo disse che gli Stati Uniti mentono sempre, che avevano solo cambiato tattica, che l’attacco frontale era stato sostituito dalla sovversione, che la distensione proposta dalla Casa Bianca era una specie di cavallo di Troia e che Obama stava appoggiando il settore non statale, quello privato dei cuentapropistas (più o meno “il popolo delle partite IVA”), solo per destabilizzare il governo di Cuba.
“Fu questa la luce verde data a tutti i vecchi falchi del regime perché cominciassero a criticare il processo di apertura e perché eventualmente anche Raúl lo facesse. Fu un errore brutale”, spiega Mesa-Lago che aggiunge, “Cuba alla fine ha confermato la tesi di chi negli Stati Uniti voleva lasciare le cose com’erano: otteneva molto da Obama, concedendo nulla in cambio”.
Donald Trump, forte del fallimento diplomatico del suo predecessore, non solo ha ritirato tutte le aperture obamiane meno quella sulle rimesse (e non è detto non possa farlo), ma dallo scorso 17 aprile ha anche attivato il capitolo III della Helms-Burton, la legge del 1996 sull’embargo. Nello specifico il capitolo III tutela gli statunitensi ai quali furono confiscati i beni dal castrismo quasi 60 anni fa. Oltre a favorire i cubani naturalizzati rifugiatisi soprattutto in Florida, la norma (che non era mai stata attivata da nessun altro presidente) consente adesso di denunciare chiunque abbia investito in case quasi sempre oggi gestite dal regime o da ex militari, hotel e fabbriche negli ultimi anni, molti dei quali spagnoli e canadesi ma anche di tanti altri paesi europei, Italia compresa. “Una politica sbagliata – secondo Mesa-Lago – perché, pur sottolineando tutti gli errori di Cuba, cercare con sanzioni sempre più dure e mai introdotte prima di fare crollare il regime castrista per fare pressione sul Venezuela non farà che aumentare la crisi economica, la chiusura del regime e la tensione sul piano internazionale”.
Al di là delle politiche statunitensi che cambiano con ogni presidente, è indubbio per Mesa-Lago che “Raúl Castro ha cercato di correggere il modello economico disastroso ereditato da Fidel con riforme di mercato, come ad esempio aprire al capitale straniero, ma il tentativo non ha avuto effetti tangibili sulla popolazione data l’estrema lentezza nella sua implementazione, i disincentivi e le tasse esorbitanti”. Insomma, invece di fare come Cina e Vietnam, che hanno unito riforme di mercato effettive senza rinunciare al controllo politico, Cuba non ha approfittato della storica chance offerta dall’appeasement di fine 2014 per “rivoluzionare” il suo modello economico, anche alla luce della crisi economica che attanaglia il suo principale partner commerciale, il Venezuela.
Nel 2012 l’interscambio commerciale tra l’Avana e Caracas raggiunse il suo record, con il 44,1% di tutti gli scambi commerciali cubani (qui tutti gli indicatori socioeconomici). Era una cifra tripla rispetto a quanto si stima sia oggi; benché già si sapesse che il Venezuela era incamminato verso il disastro.
Storicamente, il principale problema di Cuba è stata proprio la dipendenza economica dall’estero. Prima dalla Spagna coloniale e poi dagli Stati Uniti. Quando Fidel Castro rovesciò la dittatura di Fulgencio Batista nel 1959 non fece altro che passare dalla dipendenza economica dagli Stati Uniti (che garantiva allora il 52% dell’import dell’Avana) a quella dall’URSS (che all’apice della sua collaborazione arrivò a coprire il 72% del fabbisogno cubano). Il crollo dell’impero sovietico portò ad una fase nota ai più come “Periodo Especial”. Fu una crisi economica senza precedenti che mise alle corde i cubani, con l’esodo in massa verso la Florida via mare (i cosiddetti balseros) ed un tentativo di rivolta noto come il Maleconazo, ovvero la ribellione del Malecón, il lungomare dell’Avana vecchia, repressa dalle neonate BRR, le Brigate di Risposta Rapida, gruppi para-polizieschi composti da funzionari pubblici proprio allo scopo di far morire sul nascere le rivolte popolari.
Convinti che la crisi del “Periodo Speciale” che fece crollare il PIL cubano del 30% in pochi anni avrebbe fatto implodere anche il regime comunista, gli Stati Uniti rafforzarono l’embargo iniziato nel 1960 con due leggi, la Torricelli del 1992 e la già citata Helms Burton. Tutto inutile, visto che Fidel Castro aveva già trovato la sua contromossa: aprire un canale con Hugo Chávez per fare del Venezuela il sostituto ideale dell’ex URSS. Il primo incontro tra i due avvenne nel 1994 all’Avana, subito dopo l’amnistia concessa dall’allora presidente Rafael Caldera per il golpe organizzato due anni prima dallo stesso Chávez.
La collaborazione con il Venezuela – che con Chávez si è inventato un Socialismo del secolo XXI ritagliato sul modello castro-comunista e, dunque, disastroso anche dal punto di vista economico – oggi dovrebbe essere accantonata per concentrarsi sulle riforme necessarie e promesse nel 2007 da Raúl Castro per migliorare finalmente sul serio la vita dei cubani. Come? Procedendo a riunificare la doppia moneta come era previsto si facesse già nel 2018, smettere di tartassare i lavoratori autonomi che oggi garantiscono il 12% del PIL (quasi il doppio del Venezuela per la cronaca), consentire ai contadini di vendere i loro prodotti non allo Stato a prezzi fissi ma ai prezzi di mercato come hanno fatto Cina e Vietnam.
Invece di riattivare le Brigate di Risposta Rapida, accordarsi con il Nicaragua sui visti per facilitare un altro esodo di massa di esuli cubani (ce ne sono migliaia a Panama), o difendere un modello economico che non ha mai funzionato in nessuna parte del mondo (il Venezuela è solo l’ultimo caso) o pensare che il mondo di oggi sia quello degli anni ’60, sarebbe bene che chi comanda a Cuba ascoltasse il monito che già a gennaio aveva lanciato il The Havana Consulting Group: “la crisi economica a Cuba peggiorerà nei prossimi mesi e, se non si aprirà a un sistema di mercato, il paese potrebbe cadere in un nuovo Periodo Speciale”.