La forma dell’immigrazione: tra emergenze e scontro simbolico
Se si cerca di capire la specificità del tema dell’immigrazione nello spazio europeo, non ci si può fermare alla constatazione che sia uno dei principali generatori di paura in società disorientate dalla globalizzazione e sfiancate dalla crisi economica. Tanto meno si possono accusare – più o meno velatamente – di ignoranza e stupidità le solite masse che, adesso nella veste di “popolo”, si bevono i discorsi xenofobi e nazionalisti.
Si può invece intraprendere un percorso diverso e più incisivo, utilizzando tre concetti chiave: emergenza, frattura culturale, nuova mediazione politica.
Il tema politico dell’immigrazione prende forma sin dagli anni ’90 in Italia attraverso una serie di emergenze che derivano da eventi straordinari o scioccanti. Si stabilisce così un costante legame con la cronaca, normalmente la cronaca nera, dalla quale proviene un continuo seppure mutevole “rifornimento” verso gli spazi del dibattito pubblico. Omicidi, naufragi, stupri, incidenti, e ancora tragedie del mare, anche salvataggi eroici, e ancora aggressioni, dall’una e dall’altra parte. Nei vicini paesi europei il quadro si completa con gli atti terroristici.
I casi più “memorabili” sono tutti eventi fotocopia di tanti altri. Uno svolgersi sincopato, ma incalzante, in cui le tragedie del mare lentamente si inseriscono a testimoniare un cambiamento epocale dei flussi; un mutamento che però, a guardar bene, non cambia lo schema di rappresentazione.
Le “esplosioni” dell’attenzione di tutti i media ne sanciscono emotivamente la capacità di disorientamento, certamente collegato alle performance spettacolari di molta parte del giornalismo, ma comunque corrispondente allo sconcerto del pubblico, compreso quello più attrezzato e consapevole.
Si tratta di accadimenti di segno diverso, che, si è visto, generano due opposti ma simmetrici rituali: da una parte quello del dolore e della pietà, dall’altro quello della difesa e della reazione di rifiuto. A seconda degli orientamenti politico-culturali, i mezzi d’informazione li mettono in scena. Ma appunto si tratta di rituali. Riescono a rinsaldare il legame affettivo oltre che fiduciario tra i produttori di informazione e i propri pubblici, che peraltro coltivano questi sentimenti negli spazi orizzontali del web, magari assistiti dalla guida di leader di opinione partigiani, schierati sui due fronti.
Il problema è che la cronaca ha natura pre-politica: il transito della cronaca verso la politica deve trovare una qualche mediazione. I mediatori possono essere e sono diversi: i giornalisti, i politici, gli esponenti della società civile. Tutti cooperano in questa funzione, ma c’è qualcosa che non la rende efficace. Ma la diagnosi che qui propongo non è quella facile della disinteremediazione imperante a causa dei social media.
Lo schema è diventato quello del ripetersi di emergenze, che invece di essere occasione di slancio progettuale, diventano pretesti di scontro simbolico. Da una parte vediamo il radicalismo umanitario, forma estrema del pensiero e dei sentimenti universalisti e cosmopoliti, posseduti dai ceti riflessivi che sono in grado di misurarsi con la globalizzazione, e che anzi su questa hanno ricostituito una forma di nuovo idealismo progressista. Dall’altra parte vediamo il radicalismo xenofobo e nazionalista, forma estrema dei sentimenti di disagio provocati dalla globalizzazione e dallo stesso cosmopolitismo, espressi dai ceti che patiscono il contraccolpo culturale delle trasformazioni in atto (“Cultural Backlash” s’intitolal’ultimo volume di Pippa Norris e Ronald Inglehart, che hanno già in precedenza studiato il fenomeno). Si tratta quindi di una nuova frattura culturale (potremmo dire una faglia culturale). Nel linguaggio della sociologia politica è un nuovo cleavage politico-culturale, che si interseca ma anche supera i cleavage di classe, tra l’altro coinvolgendo anche l’integrazione europea (si veda il libro di Thomas Risse “A Community of Europeans?”, del 2010).
Non vi sono però soltanto i due fronti. In mezzo, tra le posizioni estreme, vi sono settori delle opinioni pubbliche europee comunque colpiti dallo strutturarsi del cleavage culturale che tiene l’immigrazione nel suo nucleo storico generativo. Sono colpiti da una forma di disorientamento che difficilmente è riconducibile al disagio economico e basta, poiché si muove al di fuori delle coordinate di cultura politica su cui si è costruita la rappresentanza in tutto il Novecento. Probabilmente, la politica del secolo in corso avrà sempre di più a che fare con un aggregato di problemi connessi alle nuove insicurezze, quelle che appunto producono smarrimento (categoria che è contigua alla paura, come dice Ruggero D’Alessandro nel suo “La società smarrita” del 2010).
Qui torna utile un antico concetto, quello di panico morale, coniato dai sociologi della “scuola di Birmingham” nel loro studio sulle ondate di criminalità nelle città inglesi negli anni ’70. Nella loro visione, l’insicurezza diventa il frame della convivenza sociale, e la crescente richiesta di misure di polizia coinvolge ampiamente l’opinione pubblica: questa non solo si sente in allarme e spaventata (panico) ma anche perde la bussola di ciò che è giusto/ingiusto ovvero auspicabile/riprovevole; ed ecco il panico morale (si veda “Policing the Crisis” del 1978). Un processo analogo sta accadendo con l’immigrazione, come indicano i dati dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (2017): al di là della classifica, c’è un impasto tra paure globali (terrorismo e disastri naturali), incertezza economica, criminalità e immigrazione. Secondo Eurobarometro, gli italiani mostrano una sensibilità maggiore degli altri cittadini europei verso l’immigrazione come minaccia.
Da qui, c’è chi prende la strada dell’indignazione verso il comportamento dei media, normalmente imputando loro (come fossero un blocco unico) la colpa delle cosiddette misperceptions, cioè delle percezioni non corrispondenti ai dati “reali”; come se i fenomeni psico-sociali abbiano mai avuto aderenza alla cosiddetta realtà.
Ma allora perché, detta in termini semplici, l’immigrazione genera disorientamento e percezioni di minaccia-insicurezza anche nei ceti riflessivi o comunque nelle persone che hanno profili di cultura civica orientati alla solidarietà?
Un motivo sta già nelle cose che ho detto sinora: si tratta dello scollamento tra culture civico-politiche progressiste tradizionali e i nuovi (ormai non più) problemi della globalizzazione e della sicurezza. Chiaramente ciò ha a che fare con la indisponibilità di risorse aggiuntive di welfare. Ma non concordo con quanti sostengono che la destrutturazione del progressismo sia dovuta all’affermazione di lungo periodo del neo-liberismo, materializzatosi anche nelle istituzioni europee. Una visione economicista e redistributiva che resiste all’impatto sconvolgente del cleavage culturale. Intellettuali, politici ed esponenti della società civile schierati a favore dell’immigrazione – e contro i media, che generano “disinformazione” – stentano a capire che la paura è a tutti gli effetti una categoria politica.
Un altro motivo, poco presente nel dibattito sul cambiamento culturale, è che la xenofobia, notoriamente per chi se ne occupa da prima, ha delle caratteristiche “fisiologiche” alquanto incompatibili con la razionalità politica preesistente, quella del secondo dopoguerra. Infatti attraversa trasversalmente il continuum sinistra-centro-destra (che costitutivamente non include il da farsi con lo straniero). Ma non lo fa con configurazioni atteggiamentali apertamente razziste, bensì con il cosiddetto pregiudizio differenzialista, che insinua nella testa delle persone, allorché davvero le società cominciano a diventare multiculturali, una serie di dubbi sulla compatibilità delle differenze culturali. Anche l’universalismo dei diritti sociali mostra cedimenti, offrendo il fianco alle percezioni di concorrenza sui benefici di welfare, peraltro in decremento.
Un terzo motivo riguarda la speciale inclinazione delle culture del multiculturalismo ad acquisire le regole della “correttezza politica”. Queste, oltre a intervenire censurando il linguaggio, sono diventate dei potenti inibitori dell’esternazione dei problemi sorgenti dall’esperienza, ossia dal vissuto delle persone: figuriamoci quello delle relazioni interculturali nella quotidianità! Questo porta al tracollo delle relazioni che costruiscono, o dovrebbero costruire, la mediazione politica, nel circuito perverso delle censure e del disagio non ascoltato.
Il problema del multiculturalismo, allora, è quello di essere rimasto una declamazione di principi, di essere diventato una retorica a cui non corrisponde un progetto di sostenibilità della società multiculturale: di non avere elaborato un’idea di prassi politica multilivello dell’immigrazione e delle relazioni interculturali nel medio-lungo periodo. Non sono inadeguati solo i proclami o le denunce indignate, lo sono anche le semplici politiche dell’accoglienza – peraltro sono criticabili nel merito per la loro eccessiva disomogeneità, che ne mostra la natura adattiva ai contesti locali piuttosto che la spinta propulsiva di un robusto programma coordinato.
I tanto bistrattati mezzi d’informazione, se si fa eccezione per alcuni che attivamente svolgono la battaglia anti-immigrazione, mettono sul tavolo della discussione pubblica tutte le perplessità derivanti da una costellazione di episodi che mostrano giorno dopo giorno le contraddizioni della convivenza tra autoctoni e stranieri, così come le inadeguatezze e le ampie smagliature del sistema dell’accoglienza. A parte quindi la fase rituale di cui ho detto sopra, il giornalismo, anche quello che mostra un atteggiamento di advocacy verso i diritti dei migranti, pone da tempo alla politica i problemi della mancanza di visione e della inefficacia operativa.
È vero: le politiche di welfare sono strozzate dalle nuove logiche dell’efficienza economico-finanziaria. Ma la politica del multiculturalismo è strozzata dalla sua stessa retorica, dal desiderio di una egemonia simbolico-culturale che non può avere se non costruisce una nuova epistemologia politica, ricostruendo progettualità e quindi mediazione all’interno di una rinnovata geografia delle idee.