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È il big government, stupido!

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È la solita vecchia storia. Il governo federale è uno strumento utile ad affrontare i problemi del Paese, come pensano i Democratici? Oppure è il governo stesso a essere il problema principale, come pensano i Repubblicani? La linea di frattura fra i due partiti continua a essere, soprattutto per ciò che riguarda le questioni interne, quella classica sul ruolo e l’estensione dei poteri dello Stato federale: big government versus limited government.

È questo il tema che sottende il conflitto politico nell’anno che si apre, che sta plasmando l’avvio della stagione delle primarie in entrambi i partiti, e che fa della corsa alla Casa Bianca di novembre un appuntamento  di rilevanza perfino storica, come dicono alcuni osservatori. Una vittoria presidenziale dei Repubblicani darebbe loro il completo controllo del governo nazionale, con le conseguenze e le responsabilità del caso.

Questa linea di frattura, come ben si sa, è antica quanto gli Stati Uniti. Già al momento della loro nascita, l’interpretazione della Costituzione e l’approccio alle politiche pubbliche separavano i jeffersoniani (per un governo centrale debole) dagli hamiltoniani (per un governo centrale forte). Divisione che si è rinnovata nella prima parte del secolo scorso con la contrastata affermazione dello stato federale interventista, prima progressista e poi democratico-“newdealista”, e con la ridefinizione in questo senso del significato stesso del termine liberalism. Ha infine acquisito i caratteri contemporanei con il trionfo del conservatorismo repubblicano anti-liberal di Ronald Reagan, e con la sua narrazione del Novecento “statalista” come deviazione dalla via maestra dell’esperienza americana, un gigantesco errore a cui porre rimedio.

La contrapposizione ha acquisito una certa durezza negli anni dell’amministrazione Obama. Distingue i due partiti in termini filosofici e infiamma le controversie sulle questioni di cui discute il paese. Dai più ovvi, come la politica economica, i controlli su Wall Street, la riforma sanitaria, il contrasto al cambiamento climatico, le possibili riforme del finanziamento delle campagne elettorali. Fino ai meno ovvi, ma altrettanto bollenti, come il problema delle armi da fuoco (il gun control è il segno più radicale della vocazione addirittura tirannica del governo federale?) o la gestione delle terre del demanio pubblico nel grande West (vedi la crisi in corso in Oregon, che si gioca tutta sul fatto se Washington abbia o meno il potere di limitare gli usi che ne possono fare i cittadini in-loco). E’ chiaro che Repubblicani e Democratici intendono condurre il paese in direzioni piuttosto diverse. Fra l’altro, è probabile che il prossimo Presidente abbia l’opportunità di nominare alcuni nuovi giudici della Corte suprema, la quale ha una notevole autorità su grandi questioni nazionali.

Per come si è delineato il dibattito negli ultimi mesi, la questione del ruolo del governo attraversa anche il corpo dei due partiti e quindi le loro imminenti primarie. Ciò è evidente sul fronte democratico. Hillary Clinton è erede della corrente centrista e New Democrat. Ha mostrato di pentirsi delle politiche di deregulation degli anni novanta “clintoniani” (nel senso di Bill), ma sta ancora cercando di riposizionarsi. Deve farlo soprattutto a fronte della sfida a lei portata da sinistra da Bernie Sanders. Che invece, al di là dell’esotica etichetta di socialista o socialista democratico, si colloca nella più robusta tradizione newdealista e prima ancora populista (nel senso del People’s Party di oltre cent’anni fa). Il suo programma è francamente interventista alla vecchia maniera. E’ l’incarnazione del big-government liberalism tassa-e-spendi – lo spauracchio dei Repubblicani e forse il nemico ideale da loro desiderato.

I candidati repubblicani, almeno su questo tema, sembrano più compatti. Quelli al momento più in vista usano un linguaggio ancor più anti-statalista della generazione reaganiana. Propongono un generale azzeramento dell’eredità di Obama. Vogliono revocare Obamacare (la nuova copertura assicurativa sulla sanità, su cui per ora in Congresso si sono scontrati con il veto presidenziale) e le riforme finanziarie contenute nella legge Dodd-Frank del 2010. Vogliono limitare drasticamente i poteri esecutivi del Presidente e l’autorità federale di regulation, tagliare le tasse, le spese e il pubblico impiego. Donald Trump indica nell’invadenza del governo la principale minaccia al sogno americano, anche se non riesce a far dimenticare del tutto alcuni suoi “peccati” del passato: le simpatie per la sanità pubblica canadese o per un maggiore controllo sulle armi, le donazioni ad alcuni politici democratici. Per questo i più puri e duri lo accusano di essere un Repubblicano solo di nome (Republican In Name Only, o RINO), addirittura un simpatizzante del big government – il massimo insulto.

Naturalmente – come sempre – le primarie coinvolgono una minoranza di elettori, i più fedeli e motivati, e polarizzano le posizioni. Nel caso dei Repubblicani, nascondono una divisione fra l’ala insurgent del partito, che vi si esprime con scioltezza, e un establishment che vi si trova a disagio ma agisce nelle istituzioni praticando, non appena cala la verve retorica, un po’ dei normali compromessi. Quest’ala ha dato timidi segni di vita in Congresso poche settimane fa, agli sgoccioli dell’anno legislativo 2015. Maggioranze bipartisan messe insieme dal nuovo Speaker repubblicano della Camera, Paul Ryan, con il voto contrario dei suoi colleghi ultra-conservatori, hanno approvato due generose misure di spesa a favore dell’odiato big government. Hanno stanziato 300 miliardi di dollari per rimettere in sesto il sistema autostradale. E hanno finanziato il bilancio federale 2016 con 1.100 miliardi di dollari, 66 miliardi in più della proposta iniziale. Tanto per aggiungere qualcosa al debito pubblico.

Oltre le primarie, il confronto con l’elettorato generale, quello che decide le elezioni di novembre, pone dilemmi a tutte le parti in causa. E ciò in genere stempera, ma certo non annulla, la storica linea di frattura fra i partiti. I Democratici sanno che, almeno secondo la vox populi dei sondaggi, un generico sospetto verso il big government alberga ovunque, compresa una buona metà dei loro elettori. E i Repubblicani sanno che questo sospetto, ben più radicato e diffuso nelle loro constituency, è comunque generico, appunto, e ideologico; in concreto riguarda alcuni aspetti della politica federale ma non altri. Gli elettori repubblicani sono favorevoli ad abolire o a trasferire agli stati molte competenze di Washington; ma sono contrari a mettere in discussione i programmi di sicurezza sociale e l’autorità di alcune agenzie federali incaricate della regolazione dei mercati. La stessa idea di abolire davvero Obamacare risulta politicamente problematica, ora che riguarda 17 milioni di assicurati ed è stata abbracciata, per loro convenienza, anche da alcuni governatori repubblicani.

In estrema sintesi, si può dire che tutti i candidati devono ancora risolvere un problema di fondo nel loro approccio alle funzioni del government (che sia big o limited): non sarà facile per i Democratici spiegare agli elettori che il governo è davvero efficiente nel tutelare tutti i cittadini, e non sarà facile per i Repubblicani sostenere che un governo meno presente sarebbe in modo automatico un governo migliore.