Lo snodo afgano negli equilibri centroasiatici in movimento
La bomba americana GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast (Moab), sganciata giovedì 13 aprile, ha colpito sì il distretto di Achin della provincia orientale afgana del Nangarhar, ma lo sguardo degli osservatori vi ha colto un messaggio rivolto ad altri. In particolare, alla Corea del Nord, uno dei punti di tensione più elevati del continente asiatico.
Una serie di apparenti coincidenze invita però a una riflessione d’altro tipo che forse può essere utile considerare. E che fa dell’Afghanistan, ancora una volta, non solo uno dei maggiori terreni di scontro col terrorismo di matrice islamica – obiettivo dell’azione – ma anche il teatro di un confronto tra due potenze in contrapposizione su varie caselle dello scacchiere geopolitico internazionale: gli Stati Uniti e la Russia.
Il 13 aprile non era infatti un giorno come un altro, ma la vigilia della terza Conferenza sul futuro dell’Afghanistan organizzata dal Cremlino nella capitale russa. Nelle due tornate precedenti la diplomazia di Vladimir Putin aveva convocato solo alcuni attori regionali ed era assente il protagonista principale – l’Afghanistan. Il 14 aprile doveva invece segnare il vero e proprio rientro sulla scena afgana della Russia – dopo l’uscita dell’URSS da quel Paese nel 1989, dieci anni dopo l’invasione e nel momento in cui l’impero sovietico si avviava alla disintegrazione.
Per diversi anni i russi hanno tenuto un profilo molto basso sull’Afghanistan, limitandosi a criticare in qualche intervista l’intervento della Nato e, soprattutto, a mettere in guardia l’Occidente sui rischi insiti nella “tomba degli imperi”, come l’Afghanistan è stato più volte soprannominato per la capacità di infliggere sconfitte militari agli eserciti più forti. Ma negli ultimi tre-quattro anni Mosca ha tentato, con qualche successo, di riaffaccciarsi sulla scena: promesse d’aiuto e regali di armamenti hanno accompagnato una morbida e sottile offensiva diplomatica con le autorità di Kabul.
Una simile strategia aveva portato qualche frutto nel resto dell’Asia centrale, a cominciare dalle cinque repubbliche ex sovietiche di Kazakistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, per riaffermare la presenza russa in un’area ricca di giacimenti petroliferi e crocevia del commercio interasiatico. Ne è un esempio la base militare di Manas in Kirghizistan: la base, che servì alle forze aeree americane come spazio logistico dal 2001 al 2014, è ora tornata sotto tutela kirghisa proprio grazie alle forti pressioni di Mosca e Pechino.
L’Afghanistan restava però saldamente sotto l’influenza della Nato e degli Stati Uniti che nel Paese, oltre alla grande base di Bagram, hanno il controllo e il permesso di utilizzo di altre otto basi aeree. Ciò consente agli USA di controllare lo spazio aereo e dunque i movimenti logistici sia verso l’Iran sia verso l’Asia centrale. Questa situazione è percepita dai russi come una sorta di accerchiamento della loro cintura protettiva meridionale. Le cinque repubbliche ex sovietiche sono infatti ancora legate a Mosca da un patto che consente alla Russia il controllo delle loro frontiere meridionali.
L’appuntamento del 14 aprile doveva dunque servire a lanciare una nuova fase diplomatica tra Mosca e Kabul. A Mosca si sono incontrati trovati i rappresentanti di Cina, India, Pakistan e Iran accanto a quelli delle cinque repubbliche centroasiatiche e di Kabul. Il profilo è restato basso: poche fanfare sui media e nessun impegno diretto dei governi. Ciò non di meno l’incontro ha prodotto una sorta di “nuova alleanza” e prefigurato nuovi incontri futuri: il prossimo dovrebbe svolgersi in Afghanistan, mentre Mosca si è offerta come sede “neutrale” per gli incontri tra talebani e governo di Kabul – secondo il modello “siriano”.
Un mezzo successo dunque, di fatto però offuscato dalla bomba della vigilia – dimostrazione di forza del convitato di pietra alla Conferenza, gli Stati Uniti, che all’invito a partecipare alla conferenza avevano opposto un secco rifiuto. Uno schiaffo diplomatico reso ben più sonoro proprio dall’esplosione della Moab.
Nel collegamento tra i due eventi, un altro elemento va preso in considerazione. Nelle stesse ore in cui l’US Air Force si preparava al lancio dell’ordigno, il presidente Donald Trump annunciava che il suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale sarebbe andato in visita a Kabul. Una mossa rilevante sia perché l’ex-Generale Herbert Raymond “H.R.” McMaster è il funzionario più alto in grado inviato in Afghanistan da che Trump è presidente, sia perché l’oggetto della visita – secondo gli osservatori e la stampa locale – avrebbe potuto essere il possibile aumento delle truppe americane in Afghanistan. Tale richiesta era stata già più volte avanzata dal Generale John Nicholson (nel febbraio del 2017 ha fatto presente che servirebbero “alcune migliaia” di soldati), da marzo 2016 comandante delle truppe Usa e Nato nel Paese*.
La missione di McMaster, giunto a Kabul dopo il raid del 13, era stata preceduta da mesi di schermaglie tra americani e russi: soprattutto tra Nicholson con altri funzionari civili e militari americani da una parte (che hanno accusato i russi di contatti coi talebani e di averli forse anche riforniti di armi) e l’inviato speciale russo Zamir Kabulov dall’altra. Kabulov conosce il Paese: ci ha lavorato dal 1983 all’87 come Secondo Segretario d’ambasciata (e, secondo la stampa americana, come spia del KGB) e poi è stato ambasciatore a Kabul – nell’epoca Karzai – sino al 2009. È un uomo che ha conosciuto il mullah Omar e ha trattato con lui, nel 1995, per il rilascio di prigionieri russi.
Nei prossimi giorni potremmo assistere all’annuncio di un nuovo impegno militare americano in Afghanistan (in totale controtendenza con la politica voluta da Obama):gli americani possono infatti comunque contare sull’appoggio praticamente indiscusso del governo afgano attuale. Mentre durante l’era Karzai il tasso di litigiosità Washington-Kabul era sempre molto elevato (anche in occasione della GBU-43/B Karzai è stata praticamente l’unica voce critica), con l’esecutivo di Ashraf Ghani i rapporti sono saldi e la strategia condivisa.
Washington può contare dunque su un governo che gli è amico (anche per frenare un’offensiva diplomatica russa o cinese) per diversi motivi, a cominciare dalla sua intrinseca debolezza. Debolezza politica, per la bizzarra alchimia istituzionale con un esecutivo bicefalo retto da un presidente – Ghani – e una sorta di copresidente con larghi poteri – Abdullah Abdullah – e debolezza economica visto che l’Afghanistan sta affrontando la più grave crisi economica da che il 90% delle truppe straniere arrivate a oltre 100mila unità alcuni anni fa ha lasciato il Paese dal 2014, riducendo al lumicino il flusso di valuta pregiata, gli appalti della logistica e, più in generale, gli aiuti allo sviluppo. Nonostante manifestazioni di malcontento, il calo del consenso e la costante litigiosità parlamentare, il governo locale garantisce però però stabilità generale e un grado di acquiescenza sulle scelte degli alleati che fa di Kabul un solido baluardo della strategia americana nella regione.
Benché i tempi e gli attori siano cambiati, la fase attuale sembra fare ancora dell’Afghanistan, come durante il “Grande Gioco” dell’800 tra Impero zarista e corona britannica, e come durante la Guerra Fredda, il teatro dello scontro tra i colossi del mondo. Sia pure turbolento, senza sbocco al mare e situato in una regione priva di risorse energetiche e composta in prevalenza di sassi e deserti, oggi come ieri questo Paese appare, più che la posta in gioco, la fiche necessaria per controllare i destini di una vasta area del pianeta.
* I militari statunitensi in Afghanistan (USFOR-A) sono circa 8.500 di cui quasi 7.000 fanno parte della missione Nato Resolute Support che conta in totale 13.400 soldati da 39 Paesi.