La penetrazione africana della Cina: la fase di consolidamento
Il 7° Forum sulla cooperazione sino-africana (FOCAC), che ha riunito attorno al capotavola, il Presidente cinese Xi Jinping, oltre 50 capi di stato africani, è andato in scena all’inizio di settembre a Pechino. Tutti – ad eccezione dello Swaziland, bandito dall’incontro perché mantiene rapporti con Taiwan – hanno fatto la fila per ottenere fette di una torta che vale 60 miliardi di dollari promessi da Pechino per il periodo 2019-2021; la cifra corrisponde a quanto investito per il triennio precedente dallo scorso FOCAC. La diplomazia cinese viaggia insieme a cooperazione economica e miliatre. Il primo partner commerciale del continente africano mette sul piatto un sostanzioso pacchetto di prestiti e investimenti (pubblici e privati) tesi a cementare un legame (non soltanto) economico ormai ventennale, oggi più che mai strategico nella lotta per l’egemonia mondiale.
Al netto della crescente importanza della regione costiera orientale- che per ragioni geopolitiche resta la base dell’espansionismo cinese nel continente – e degli storici rapporti commerciali privilegiati con il Nord Africa, quest’anno al FOCAC particolare attenzione è stata riservata all’Africa Occidentale, nuova frontiera degli stratificati rapporti sino-africani. In questa regione ricca di risorse e in forte espansione demografica, i paesi francofoni presentano mercati meno affollati su cui la concorrenza di altri attori di peso – quali USA, UE, Russia, India, Turchia ed Emirati Arabi Uniti – appare meno arcigna che altrove. Inoltre, la relativa vicinanza geografica all’Europa e al Nord America rendono questa zona ancora più importante per espandere il raggio d’azione del commercio cinese.
Se prima a far gola alla Cina erano soprattutto le materie prime, ora Pechino pone maggiormente l’accento retorico sulla “cooperazione win-win” attraverso uno “sviluppo comune” che passi dalla costruzione di infrastrutture e dall’industrializzazione dell’Africa. A suggello di questa visione c’è il mastodontico progetto Belt and Road Initiative (Bri), ultima fase del processo di internazionalizzazione cominciato dopo la morte di Mao. “La Nuova Via della Seta” è un imponente sistema di comunicazioni terrestri e marittime che dovrebbero collegare la Cina a 65 paesi di Europa, Medio Oriente e Africa per favorire l’aumento degli scambi commerciali con queste regioni. Un piano strategico globale che il presidente Xi Jinping ha particolarmente a cuore e che, come primo partner in Africa Occidentale, da quest’anno annovera il Senegal.
Non è un caso, dunque, che la prima tappa del tour africano di Xi, a luglio, sia stata proprio la capitale della nazione-faro della regione. Il Senegal – che contende alla Costa D’Avorio il primato di locomotiva economica dei Paesi francofoni della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas) – si è vestito a festa per accogliere Xi Jinping a Dakar, città ornata da bandiere rosse e strade pulite per l’occasione. In quei giorni diversi milioni di dollari in prestiti e investimenti sono stati promessi dalla Cina all’”amico senegalese”.
Nel 2017 Pechino aveva già investito direttamente circa 110 milioni di dollari in Senegal, ossia il doppio dell’anno precedente. Il polo industriale di Diamniadio, recentemente costruito a una cinquantina di chilometri dalla capitale, è uno dei più ambiziosi esperimenti di industrializzazione della regione finanziato da Pechino: un progetto finora complessivamente costato circa 140 milioni di dollari che potrebbe dare lavoro a più di 5mila persone, come auspicato dal “Piano Senegal emergente”, punta di diamante del presidente senegalese Macky Sall. Gli alti tassi di disoccupazione e una gioventù urbana in forte crescita sono problemi particolarmente urgenti per molti paesi africani. Per questo, al FOCAC dei primi di settembre diversi capi di stato del continente hanno cercato di ottenere promesse di investimenti nel settore manifatturiero (e agricolo) per rilanciare le proprie economie.
Economie che, però, potrebbero vacillare al cospetto dalla “trappola del debito”, lato oscuro degli investimenti cinesi all’estero. La forte pressione generata sulle casse statali da opere costose (giudicate “vanitose” dai detrattori) e non facilmente remunerative nel breve periodo, infatti, potrebbe costringere inadempienti paesi fragili a “cedere” la propria sovranità su parti di territorio o infrastrutture strategiche a Pechino. L’anno scorso è successo allo Sri Lanka con il porto di Hambantota, concesso a compagnie cinesi a stralcio di un debito di oltre 1 miliardo di dollari. Questo spauracchio – agitato anche da potenze occidentali quali USA e Francia che, temendo la concorrenza cinese in Africa, la tacciano proprio del “neocolonialismo” e “imperialismo” di cui sono loro stesse accusate – è stato rinforzato dalla recente notizia che Gibuti, ex-colonia francese in Africa orientale sta trattando con Pechino per concedere il controllo del principale porto del paese per i prossimi 99 anni, a parziale contropartita di un debito schizzato a 1,2 miliardi di dollari. La Cina controlla infatti l’82% dell’intero debito estero del paese.Va ricordato che a Gibuti – collocata all’imboccatura meridionale del Mar rosso – risiedono, oltre all’unica base militare cinese in terra straniera, strategici dispiegamenti americani e francesi.
Il Senegal, esempio di stabilità e crescita economica per le nazioni francofone dell’Africa Occidentale, è già fortemente indebitato con la Cina. Un fossato destinato a crescere con il FOCAC, come nella maggior parte dei paesi della regione. Qui, però, è stato da poco trovato il petrolio. L’indebitamento potrebbe dunque spingere il Senegal a svendere e a elargire concessioni di sfruttamento e trasformazione dell’oro nero a colossi stranieri, invece che puntare su una visione più lungimirante dello sfruttamento delle proprie risorse. Sempre facendo leva su questo meccanismo la Cina negli ultimi anni ha scalfito, ad esempio, il monopolio francese dell’estrazione dell’uranio in Niger e ha consolidato le proprie mire su petrolio, gas naturale e altre ricchezze dell’intera regione.
Nello scorso lustro, oltre a dedicarsi al più tradizionale settore minerario e a esportare grosse quantità di beni di consumo, la Cina in Africa Occidentale ha costruito scali portuali, ferrovie, ponti e strade. Questi progetti – coperti da ingenti prestiti di banche cinesi dai tassi apparentemente vantaggiosi – hanno un forte impatto simbolico. Prima, infatti, la creazione delle infrastrutture era appannaggio delle ex-madri patrie coloniali; oggi i nuovi partner finanziari che le sostituiscono, come la Cina, si vantano di trattare “da pari a pari”. Mezzo secolo dopo l’avvento delle loro Indipendenze, i paesi africani sentono forte il bisogno di affrancarsi dall’esclusivismo e dalla sottomissione ai padroni coloniali, e guardano con speranza all’Asia e alle sue tigri per diversificare la propria economia.
La conquista di vasti mercati “vergini” per l’esportazione dei propri prodotti non è l’unico obbiettivo della Cina in Africa. Nella ridefinizione delle sfere d’influenza in corso sullo scacchiere geopolitico contemporaneo, Pechino punta sempre di più ai paesi africani come alleati strategici in seno alle Organizzazioni internazionali come l’ONU. Alcuni analisti la chiamano “diplomazia del debito”, sostenendo che la leva economica possa forzare rapporti di vassallaggio e sudditanza politica dei paesi in via di sviluppo.
Su questo pesa anche il redditizio commercio di armi in Africa. Secondo le stime dello Stockholm International Peace Research Institute, nel periodo 2013-2017 l’esportazione di materiale militare cinese verso il continente è salito del 55% rispetto al quinquennio precedente. La Cina è diventata così – con il 17% delle importazioni militari africane dopo la Russia, 39%, e prima degli USA, 11% – il secondo dei mercanti d’armi in Africa.
Durante il FOCAC Xi Jinping ha rassicurato i “fratelli africani” sostenendo che “la Cina non interferisce negli affari interni e non impone la propria volontà sul continente”. In prima fila ad ascoltarlo c’era anche Omar Al Bashir, presidente del Sudan ricercato (sulla sua testa pende un mandato di cattura) dalla Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia per crimini contro l’umanità. Poco lontano da lui c’erano i governanti di Mali e Sudan, paesi in cui la Cina partecipa alle prime missioni di peace-keeping dell’ONU della propria storia.
Pechino ha presentato il 2018 come “l’anno della consacrazione” del rapporto privilegiato con l’Africa. Consapevoli dei rischi che stanno correndo, i paesi africani sperano che il processo in corso porti al passaggio e all’assorbimento interno di competenze e tecnologie, alla creazione di nuovi posti di lavoro e a conseguenti benefici tangibili per le proprie economie. Solo il tempo potrà dire se la Cina è un partner affidabile nell’industrializzazione del continente. Intanto Pechino, col passare degli anni, ha imparato il francese. Perché la Nuova Via della Seta passa anche dall’Africa Occidentale.