La caduta di Afrin e la nuova Siria che prende forma
La giornata di domenica 18 marzo ha segnato la conquista definitiva della città di Afrin – situata nell’enclave curda in Siria che porta lo stesso nome – da parte dell’esercito turco e dei suoi rincalzi siriani. L’offensiva delle truppe turche è durata 58 giorni. Non c’è stato il temuto combattimento strada per strada all’interno della città, che avrebbe provocato ancora più vittime, perché i soldati curdi si sono ritirati. Le autorità curde del cantone e dell’opposizione democratica curda in Siria hanno comunque annunciato che la battaglia continuerà, seppure con altri mezzi: ad esempio la guerriglia.
I soldati curdi dello YPG (Unità di Protezione del Popolo) sono combattuti dai turchi perché accusati di essere alleati del PKK, il Partito dei Lavoratori Curdi in Turchia, considerato da Ankara “terrorista”. Allo stesso tempo, sono stati i migliori alleati dell’Occidente contro l’ISIS in Siria e sono stati protagonisti di alcune delle sconfitte più dure inflitte sul campo ai jihadisti, tra cui la liberazione di Raqqa e Mosul.
Tra gli obiettivi più generali della Turchia, che spiegano questa azione militare – ricordiamolo: avviene in territorio siriano – c’è quello di impedire che a nord della Siria, lungo il confine turco, si consolidi una regione autonoma interamente sotto il controllo curdo. La Turchia, che ospita 3 milioni di rifugiati siriani, sogna di ripopolare con questa popolazione le zone siriane vicine al suo confine, dopo averne scacciato la popolazione curda.
Inoltre, proprio come è accaduto per Vladimir Putin, la campagna militare serve all’autocrate Recep Tayyip Erdoğan per risollevare la sua popolarità in vista delle prossime presidenziali, tra 18 mesi. La Russia – alleata della Turchia nello scenario siriano – non si oppone a questa manovra; con la caduta di Afrin, Ankara controlla entrambi i lati di quasi metà (400 km su 911) della frontiera turco-siriana.
Le forze siriane entrate ad Afrin insieme ai turchi sono di tendenza islamista (probabilmente molti soldati sono stati reclutati proprio tra le forze di ISIS e Al-Qaida in rotta), e condividono con lo Stato Islamico molte simbologie: le barbe lunghe, i pantaloni rialzati sulle caviglie, l’indice puntato al cielo per proclamare l’unicità di dio. Dell’ISIS hanno conservato anche alcuni metodi, come dimostra l’abbattimento della statua dell’eroe mitologico curdo Kawa, gettata a terra e sfigurata – un gesto che ricorda, per traslazione, la distruzione della città romana di Palmira.
Prima dell’offensiva, il cantone di Afrin era l’unico di tutta la Siria ad essere stato risparmiato dalla guerra. Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo, 300 civili hanno perso la vita durante i 58 giorni dell’offensiva. Un numero imprecisato, molte decine di migliaia di persone, è scappato dalla città con ogni mezzo; i loro beni, secondo le corrispondenze, in questo momento vengono saccheggiati dai nuovi occupanti.
La battaglia di Afrin dimostra che la guerra in Siria è tutt’altro che finita. Dentro il conflitto, esistono diverse guerre combattute contemporaneamente, che diventano sempre più cruente via via che sembra avvicinarsi la fine delle ostilità. Ogni parte in causa, infatti, vuole arrivare al momento in cui si discuterà del futuro assetto territoriale della Siria, e dunque della stabilizzazione della regione, nella posizione più vantaggiosa possibile. Nella pratica, dal punto di vista di Ankara, questo si traduce in due punti cardine: controllare la Siria settentrionale; impedire che si consolidi l’autogoverno curdo nella regione.