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Lo scontro Varsavia-Bruxelles: un nuovo “caso Ungheria”?

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Un tempo antesignana della lotta contro il giogo di Mosca, oggi protagonista dello scontro con l’UE. Si tratta della Polonia di Diritto e Giustizia (PiS), il partito nazional-conservatore che nel 2015 ha conquistato prima la presidenza della Repubblica e poi la maggioranza assoluta in Parlamento. Allora il risultato delle elezioni rappresentò uno shock per gli osservatori internazionali. Il partito liberale Piattaforma Civica aveva infatti garantito al Paese una crescita solida e duratura. Nessuno avrebbe immaginato che le zone rurali dimenticate, dove il tempo è scandito dalle trasmissioni di Radio Maria, avrebbero relegato gli artefici del miracolo economico all’opposizione. Da allora, il consenso per la maggioranza di governo è andato crescendo, tanto da suscitare il timore che l’alternanza politica diventi pressoché impraticabile, come avviene nella molto più citata Ungheria.

Lo scontro tra UE e governo polacco non sembra destinato a placarsi a breve. Nel dicembre scorso, la Commissione aveva deciso di avviare la procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato dell’UE nel caso in cui uno Stato Membro rischi di violare i principi fondamentali dell’Unione. Procedura che, in teoria, potrebbe perfino concludersi con la perdita per Varsavia del diritto di voto all’interno delle istituzioni europee. A inizio marzo, il Parlamento di Strasburgo ha approvato a larga maggioranza – 422 voti contro 157 e 48 astenuti – una risoluzione non vincolante di sostegno all’azione della Commissione.

Il motivo delle preoccupazioni europee è da ricercare in una riforma che, a detta degli oppositori, minerebbe la separazione dei poteri. Quindici dei 25 membri del Consiglio Superiore della Magistratura, ora eletti dagli organi di autogoverno dei giudici, sarebbero invece nominati dalla camera bassa del Parlamento, mentre l’età di pensionamento dei giudici della Corte Suprema – tribunale di ultima istanza – passerebbe da 70 a 65 anni. Questa seconda misura sostituisce una legge del luglio 2017 che, mandando in pensione i giudici attualmente in carica a vita, avrebbe permesso alla maggioranza parlamentare di nominarne degli altri. Anche allora la Commissione aveva minacciato di applicare la procedura ex articolo 7, mentre si erano registrate enormi manifestazioni di piazza. Così, che il presidente Andrzej Duda aveva posto il proprio veto sulla legge. La prima presidente della Corte Suprema Małgorzata Gersdorf ha definito la nuova legge “incostituzionale”, mentre l’opposizione ha parlato di “colpo di Stato” e ha minacciato un ulteriore ricorso alla piazza. Invece, il ministro della giustizia Zbigniew Ziobro ha sfidato la Commissione dicendosi intenzionato a portare avanti quanto iniziato, per garantire il rispetto dello Stato di diritto e della sovranità polacca.

A deteriorare ulteriormente le relazioni tra Varsavia e Bruxelles ha contribuito la recente approvazione, da parte di PiS, di una legge che prevede fino a tre anni di carcere per chiunque attribuisca “alla nazione polacca” una qualche forma di responsabilità per lo sterminio degli ebrei durante l’occupazione nazista. Legge che ha suscitato le vive proteste di Israele, nonché l’indignazione del presidente del Consiglio europeo ed ex premier polacco Donald Tusk, che ha parlato di “macchia nella reputazione del Paese”. La sua approvazione arriva in concomitanza con la risoluzione del Parlamento europeo in appoggio all’azione della Commissione, contribuendo all’isolamento internazionale della Polonia.

In ogni caso, il percorso perché si giunga a privare la Polonia del diritto di voto nelle istituzioni europee sarebbe comunque lungo e complesso. Esso prevede l’audizione del Paese interessato presso il Consiglio UE, seguita dalla presentazione di raccomandazioni e da un voto a maggioranza qualificata da parte di quest’ultimo. Se la violazione persiste, la procedura viene ripetuta, ma perché si concluda con successo è necessaria l’unanimità all’interno del Consiglio. Un obiettivo difficilmente conseguibile, dato che il premier ungherese Viktor Orbán ha già dichiarato che porrà il proprio veto. Si tratterebbe comunque di una storica prima volta (le sanzioni decise nel 2000 contro l’Austria di Jörg Haider non rientrano nella fattispecie dell’articolo 7 perché non fu allora riscontrata una chiara violazione), con conseguente imbarazzo per lo Stato UE più popoloso dell’Europa centro-orientale, nonché importante membro della NATO.

I rapporti tra Varsavia e Bruxelles hanno vissuto momenti di tensione anche in passato per via di PiS, partito che ha governato la Polonia dall’ingresso nell’UE fino al 2007 e ha detenuto la presidenza della Repubblica dal 2005 al 2010 con Lech Kaczyński. La lunga storia di assoggettamento a potenze straniere rende i polacchi refrattari alle interferenze esterne, mentre la religione cattolica, in una parte d’Europa dominata da protestantesimo e ortodossia, li compatta.

Tuttavia, lo scontro attuale s’inserisce in un contesto particolare: i negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione. Mentre Bruxelles non può permettersi di mostrarsi debole e divisa, il premier Mateusz Morawiecki ne ha approfittato per offrire a Theresa May – in visita a Varsavia a dicembre – il proprio sostegno a un accordo sulla Brexit più favorevole, e contro l’“assai pericoloso” protezionismo europeo.

La nomina di Morawiecki – ex banchiere ed ex ministro delle finanze – sempre nel dicembre scorso, rappresenta una mossa di PiS per ripulire l’immagine del Paese. Benché tendano la mano a Londra, i dirigenti polacchi sperano di beneficiare della Brexit tramite il ritorno in patria dei giovani talenti emigrati oltremanica negli scorsi anni. L’economia in forte crescita rappresenta un fattore di attrazione, ma proprio le tendenze nazional-conservatrici del governo frenano molti di questi giovani dal tornare. Varsavia ha bisogno di forza lavoro qualificata per sostenere la crescita e poter così dialogare alla pari con i maggiori Stati Membri. Pur privandola di un alleato strategico, la Brexit la trasformerà infatti nella quinta economia dell’UE a 27.

Dal canto suo, la Commissione potrebbe usare l’arma dei fondi di bilancio per il periodo di programmazione 2021-2027. In vista del buco generato dall’uscita del Regno Unito, il commissario al Bilancio Günther Oettinger vorrebbe introdurre criteri di condizionalità più stringenti, quali l’attuazione di riforme strutturali. Benché i tagli colpiranno tutti gli Stati membri, oggi la Polonia è il primo beneficiario di fondi strutturali destinati a infrastrutture e ad altri grandi progetti, per cui è particolarmente sensibile a questo tema. Il presidente Jean-Claude Juncker ha riconosciuto la presenza di “una situazione di conflitto” e ha fissato il 20 marzo come data ultima per la Polonia per conformarsi alle raccomandazioni europee. Così, l’8 marzo, Morawiecki ha presentato di fronte alla Commissione un “libro bianco” in cui cerca di dimostrare che le riforme attuate dal suo partito sono in linea con le buone pratiche di altri Stati membri e rafforzano lo Stato di diritto. Questo incontro potrebbe fruttare alla Polonia un po’ più di tempo, per esempio tramite un prolungamento della scadenza da parte della Commissione. Tuttavia, osservatori e diplomatici ritengono improbabile che Bruxelles cambi la propria posizione e sospenda la procedura ex articolo 7.

La Polonia non rappresenta un caso isolato. Il gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), nato nel 1991 per coordinare gli sforzi per l’integrazione europea, è divenuto un campione di euroscetticismo. Viktor Orbán, che è saldamente alla guida dell’Ungheria dal 2010 e secondo i sondaggi sarà riconfermato per la terza volta alle elezioni del prossimo aprile, è stato una spina nel fianco di molte delle politiche decise a Bruxelles negli ultimi anni, a cominciare da quella sull’immigrazione. In lui, i governi di PiS hanno trovato un fedele alleato. Alle legislative dell’ottobre scorso, i cechi hanno premiato il partito populista ed euroscettico ANO, per poi riconfermare alla presidenza Miloš Zeman, vicino alla Russia di Vladimir Putin. Il nuovo premier Andrej Babis, più cauto di Orbán, si è detto fiducioso in una soluzione del conflitto tra Varsavia e Bruxelles e contrario all’introduzione di una condizionalità nella distribuzione dei fondi europei. Infine, il premier Robert Fico che governa a Bratislava (fino alle sue clamorose recenti dimissioni), per quanto socialdemocratico, si è scontrato in passato con il PSE per la sua alleanza con gli ultranazionalisti slovacchi, e ha visto il proprio consenso in costante caduta a fronte dell’avanzata di questi ultimi.

Insomma, la ricetta nazional-conservatrice ha successo, nell’intera regione, soprattutto presso quella parte della popolazione impoverita dall’apertura dei mercati. PiS è solo l’ultimo di una serie di partiti che promettono un saldo controllo su economia e confini nazionali per garantire standard di vita decenti ai cittadini. Salvo poi muoversi nel solco del liberismo, come dimostra la nomina di Morawiecki. Eppure, finora gli elettori sembrano premiare questa strategia, complice il timore suscitato – e alimentato ad arte – dalla prospettiva di dover accogliere una quota di migranti (cosa che finora non è accaduta). Resta da capire se l’alternanza democratica sarà compromessa a tempo indeterminato, o le contraddizioni tra retorica nazionalista e liberismo economico faranno implodere anche questa nuova generazione di governanti.