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La politica estera di Obama: debolezza e coraggio

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La strategia della mano tesa di Obama, in politica estera, è destinata a diventare una dottrina o è destinata a trasformarsi in un pugno, quando Obama scoprirà che il sorriso non paga? Specie con gente come Ahmadinejad: nel suo primo hearing alla Camera, da segretario di Stato, Hillary Clinton ha annunciato un indurimento delle sanzioni, nel caso in cui non decolli il previsto dialogo sul nucleare.

Carota e bastone: lo “smart power” di un’America delegittimata più dalla crisi economica che dagli errori di G.W. Bush, non è certo una grande rivoluzione. Sembra piuttosto un ritorno al realismo pragmatico. Che però, per i critici americani, contiene un rischio preciso: stiamo attenti a non esagerare nelle scuse – dicono ormai schiere di democratici e non solo i repubblicani –  l’umiltà può anche diventare debolezza, agli occhi degli altri. E quindi Obama non ecceda, fra inchini al re saudita e pacche sulle spalle di Chavez.

Umiltà e debolezza? Si potrebbe dire invece equilibrio e pacata freddezza, qualità che potrebbero rivelarsi, sulla scena internazionale, l’atout principale di Barack. E che – mentre lo allontanano dal precedente negativo spesso evocato come spauracchio (Jimmy Carter) –  mantengono in vita una premessa essenziale: l’America continua comunque a pensarsi in una posizione di leadership. “Crede ancora nell’eccezionalismo dell’America?”, è stato chiesto ad Obama durante il suo viaggio in Europa. “Certo”, ha risposto senza esitare il campione della politica del sorriso.

Il punto è che, per esercitare una leadership, Obama non può solo ripetere parole ragionevoli. Deve definire priorità specifiche e strategie che funzionino. In modo pragmatico: diverse da quelle tentate da G.W. Bush, là dove Bush ha fallito (il rapporto con la Russia, per esempio); simili quando Bush è riuscito (la relazione con la Cina o gli aiuti allo sviluppo).

La revisione delle strategie internazionali dell’America – credere nella leadership significa anzitutto tentare di recuperarla –  è fatta a casa, concepita a Washington. Poi certo: Obama è pronto a discutere, anzi vuole farlo e intende anche ascoltare, quando possibile (a Durban II non era possibile né concepibile). Ma la posizione degli Stati Uniti è definita, in prima battuta, dagli Stati Uniti stessi. Cosa ovvia, ma che tende a essere persa di vista dagli osservatori europei. Questo dato molto semplice aiuta anche a capire cosa significhi multilateralismo, per l’America di Obama. Se guardiamo al viaggio europeo, multilateralismo significa essenzialmente questo: prendere decisioni nazionali (il pacchetto di stimolo fiscale, il piano di regolazione finanziario di Tim Geithner, la review della politica in Afghanistan) e poi andarle a discutere in consessi più ampi. Non per modificarle in modo sostanziale; ma per legittimarle, primo, e per verificare, secondo, quanti appoggi esterni l’America possa trovare. Sulle sue strategie.

Obama, lamentano a questo punto gli americani, di appoggi ne ha trovati assai pochi, fra il G-20 di Londra e il vertice NATO. E’ come se la popolarità del personaggio, in Europa, non si traducesse nella capacità di raccogliere un consenso vero sulle politiche dell’America. Che piacciono molto più di prima, in teoria; ma che non vengono sostenute nei fatti.

Tutto questo dice qualcosa anche sull’Europa: multilateralismo significa, per il Vecchio Continente, che gli europei continueranno a fare quello che facevano già. Occuparsi e preoccuparsi delle proprie economie; delegare all’America le questioni dure di sicurezza. Più volentieri con Obama che con Bush; ma è comunque una delega. Il fatto che la crisi finanziaria sia nata a Wall Street sembra avere perfino eliminato i sensi di colpa: difendendo la sicurezza globale, gli Stati Uniti pagano una parte dei costi che hanno inflitto al sistema (Angela Merkel) in campo economico.

Rispetto al primo mandato di G.W. Bush, l’Europa è uscita dal dilemma fra opposizione e accodamento. Ma non sembra riuscire a fare di più, insieme agli Stati Uniti. Obama dice di volere ascoltare, si scusa per l’arroganza passata, apprezza un’Europa della difesa – se solo ci fosse. E’ un matrimonio stanco, ma che non finirà.

Sull’asse transpacifico, invece che transatlantico, il negoziato ha maggiore sostanza. America e Cina sono amici-nemici, potenze in competizione, sistemi a confronto ma fortemente interdipendenti. Lì si fa sul serio, fra debiti e crediti. Quando in Europa si evoca con fastidio il G-2, lo si ammette in modo implicito.