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Il Kurdistan iracheno e lo scenario di un vero Stato curdo

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La guerra contro lo Stato Islamico procede su più fronti: se quello più noto per il mondo occidentale è il conflitto localizzato in Siria, da diversi mesi i miliziani del Califfato vengono respinti anche nel loro confine orientale; nei prossimi mesi la battaglia per la città irachena di Mosul, localizzata nel nord-ovest del paese, verso il confine siriano, sarà decisiva per la sopravvivenza stessa del Califfato. Il grosso delle forze che sta conducendo gli attacchi contro lo Stato Islamico lungo il confine orientale è costituito dai Peshmerga della Regione autonoma del Kurdistan (per i curdi, il Kurdistan meridionale).

Nel 1991, dopo la fine della Prima guerra del Golfo, la parte settentrionale dell’Iraq si liberò della presenza dell’esercito iracheno e cominciò ad autogovernarsi: si tratta della regione intorno alle città di Arbil, Dohuk e Sulaymaniyya e abitata in prevalenza da curdi, che costituivano circa un quinto della popolazione irachena e che erano stati al centro di attacchi brutali dell’esercito di Saddam (tra cui la strage di Halabja del 1988).

Fu quello, secondo alcuni osservatori, il tentativo meglio riuscito di costruzione di uno Stato curdo in tempi moderni: nel 1992 fu eletto un Parlamento e le milizie Peshmerga furono trasformate in forze di difesa regionale. L’autogoverno curdo fu riconosciuto dalla Costituzione irachena del 2005, approvata dopo l’invasione del paese e la sconfitta di Saddam Hussein: il testo stabilisce la nascita di un Iraq federale, di cui la Regione autonoma è parte integrante.

Il presidente della Regione, Mas’ud Barzani, figlio del leggendario combattente Mustafa, fondatore del Partito democratico del Kurdistan (PDK), promette da anni un referendum per la definitiva separazione del paese dal governo di Baghdad e la nascita di uno Stato curdo: appena lo scorso anno ha firmato una legge che ha indetto il referendum, senza indicarne la data. L’impressione è che si tratti di una manovra per continuare a prorogare la sua carica di Presidente della Regione (è in carica dal 2005 ed è stato riconfermato l’ultima volta nelle elezioni nel 2009) e per continuare a trattare con Baghdad da una posizione di forza.

In effetti, allo stato attuale il referendum e l’eventuale indipendenza non sembrano essere davvero risolutivi: la crisi economica che sta attraversando la Regione è senza precedenti e la sua indipendenza  non sarebbe certo salutata come una vittoria del movimento curdo. Il “grande” Kurdistan, così come ancora viene chiamato, possiede confini ben più vasti e, al momento, gli eccellenti rapporti tra Barzani e la Turchia (non solo politici, ma anche economici visto che Ankara è il principale partner commerciale della Regione) sono visti con sospetto, se non con aperta ostilità, dagli altri partiti curdi, in particolare da quelli operanti in Siria e in Turchia.

All’ipotesi, che potrebbe essere definita piccolo-kurda, di Barzani (ovvero uno Stato formalmente indipendente, ma chiuso tra i due potenti vicini, Turchia e Iran), si contrappone quella del confederalismo democratico teorizzato da Abdullah Ocalan, il capo della resistenza curda in Turchia, esponente di spicco del PKK tutt’ora detenuto nelle prigioni turche. La sua visione punta a una soluzione di integrazione dei curdi nelle realtà statuali esistenti (e che, tuttavia, trova il suo limite proprio nelle attuali difficoltà di Iraq e Siria) ed è espressione delle elaborazioni più progressiste e politicamente innovative nello scenario politico curdo.

Al momento, però, Barzani può permettersi di attendere e, nonostante il suo mandato sia scaduto da due anni, continuare a prorogare la sua permanenza al vertice della Regione autonoma. Sebbene la liceità di questa operazione sia stata contestata (ad esempio dallo speaker del Parlamento), va tenuto presente che tutte le energie della Regione sono attualmente rivolte nella lotta allo Stato islamico sul fronte occidentale: la battaglia di Mosul, prevista per il prossimo autunno, dovrebbe essere quella decisiva. La guerra permette, quindi, a Barzani di “congelare” la crisi politica e di nascondere i fallimenti degli ultimi anni.

Di fatto la Regione autonoma è al collasso economico: una violentissima crisi, innescata dal crollo del prezzo del petrolio, che rappresenta l’85% delle entrate per il governo di Arbil, ha chiuso la fase di espansione degli anni passati (in particolare del settore edilizio tra il 2007 e il 2013: un vero e proprio boom di cui oggi sono visibili i segni, ovvero le tantissime costruzioni mai terminate e abbandonate). Un’espansione, però, priva di un più ampio progetto di riforma e, in particolare, di differenziazione dell’economia, magari al fine di evitare una totale dipendenza dai prezzi del petrolio e diminuire il livello di importazioni dall’estero (in particolare di provenienza turca).

La guerra allo Stato islamico permette, quindi, di chiedere a gran voce investimenti ai partner occidentali, con almeno due valide giustificazioni: da un lato, lo sforzo che i Peshmerga stanno realizzando per tenere sicura la Regione e avanzare lentamente verso Mosul e la piana di Ninive; dall’altro, il gran numero di rifugiati che il governo di Arbil accoglie e che nel corso degli ultimi anni ha aumentato di circa un terzo la popolazione della KRG, costretta ad affrontare il massiccio esodo da occidente dovuto proprio all’avanzata dei Peshmerga (con numeri quindi destinati ad aumentare ancora nei prossimi mesi).

Ecco perché Barzani, per ora, può continuare a rinviare sine die la questione dell’indipendenza: in questo modo calma le voci dissidenti all’interno del Parlamento – tra cui l’Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani, il primo presidente dell’Iraq dopo la caduta di Saddam, e Gorran, Cambiamento, un nuovo partito politico oltre a alcuni movimenti di lavoratori che hanno iniziato a protestare per la mancata erogazione dei salari. Contemporaneamente, Barzani può mantenere teso il rapporto con Baghdad (il governo di Arbil accusa il governo federale di non erogare le risorse necessarie previste dalla Costituzione, quello centrale ribatte che è la Regione autonoma a non aver messo in comune i proventi delle vendite di greggio).

Con Baghdad pesa da sempre anche la questione Kirkuk, la città santa, a maggioranza curda e ricchissima di greggio. Al momento la città è rivendicata tanto dal governo di Arbil che da quello di Baghdad, che ha più volte chiarito che i confini della Regione autonoma non includono Kirkuk.

I prossimi mesi saranno particolarmente delicati: l’avanzata verso Mosul – il cui territorio è a maggioranza abitato da arabi e costituisce, attualmente, il centro politico del Califfato – richiederà una forte cooperazione tra governo regionale e federale, le cui incomprensioni degli ultimi mesi hanno messo in discussione l’esito positivo della guerra. La sconfitta dello Stato islamico aprirà una nuova fase e, soprattutto, potrebbe proiettare in tutto l’Iraq migliaia di guerriglieri jihadisti. La stessa sicurezza della Regione autonoma, sino a oggi un elemento che Barzani ha sempre (giustamente) sottolineato con i partner internazionali (di contro alle difficoltà incontrate dal governo di Baghdad), potrebbe essere messa in discussione.

Si riaprirà anche il conflitto politico interno: Barzani non potrà continuare a utilizzare l’ipotesi dell’indipendenza troppo a lungo. Ed è anche probabile che le forze di opposizione preferiscano accantonarla per puntare a un cambiamento politico e alle necessarie riforme economiche, che alleggeriscano e migliorino la vita degli abitanti della KRG. Il conflitto politico nasconde, però, conseguenze ben più rilevanti perché rischia di proiettarsi lungo una sottile faglia geopolitica con Barzani e il suo clan che controllano Arbil, e le opposizioni Sulaymaniyya: seppure al momento la situazione sia più calma rispetto alla fine degli anni ’90, non va dimenticato che allo speaker del Parlamento sia stato impedito, di recente, l’ingresso proprio ad Arbil.

In ultima analisi, puntare direttamente alla piena indipendenza di uno Stato curdo nella versione proposta da Barzani potrebbe non giovare alla causa curda nel suo complesso, e rendere assai più difficile le condizioni di vita dei curdi negli altri Stati in cui si trovano – Siria, Iran, e naturalmente Turchia. Come gli ultimi anni dimostrano, vi sono molti altri fattori – in parte distinti dall’autogoverno politico – che frenano lo sviluppo della Regione.