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La “woman card” di Hillary contro Trump

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Si potrebbe dire che Hillary Clinton è stata nominata per la corsa alla Presidenza degli Stati Uniti non perché sia una donna; ma nonostante che lo sia. O meglio, nonostante che sia una donna non più giovane, non particolarmente amata dal pubblico e con un bagaglio ingombrante di tre decenni di esposizione politico-mediatica.

L’ascesa di Hillary certifica – se ve ne fosse ancora bisogno dopo l’affermazione di persone come Angela Merkel, Christine Lagarde (direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale) e Janet Yellen (alla guida della Federal Reserve) – che in singoli casi le donne arrivano a posizioni di assoluto vertice nel mondo occidentale. Il problema, come noto, è che la media delle posizioni occupate da donne è ancora (anche negli Stati Uniti) comparativamente bassa: restano sia una sotto-rappresentazione numerica (nella politica e nel business) sia un importante gap salariale, perfino in contesti “super-progressisti” e innovativi come la Silicon Valley.

Una volta chiusa la fase delle primarie (grandi sorprese alla convenzione di Filadelfia di fine luglio sono a questo punto improbabili), come voteranno le donne americane nel novembre prossimo? È vero che Hillary si attira la critica – in parte meritata – di non generare grande empatia o fiducia. Ma la media dei principali sondaggi recenti la colloca chiaramente nella posizione di potere usare la “woman card”: oltre il 50% delle donne afferma che oggi voterebbe per lei (contro circa il 35% per Trump e il resto di indecise). Esiste insomma – nelle propensioni elettorali delle donne nel loro insieme, che Hillary deve anzitutto portare a votare – un “gender gap” misurabile.

Va detto che il gap si riduce sensibilmente guardando solo all’interno del campo repubblicano: in questo caso le donne sembrano disposte a votare comunque per Trump, quasi quanto gli uomini e nonostante le intemperanze “sessiste” del candidato del loro partito. Resta la svolta annunciata: nella competizione diretta con Trump, Clinton giocherà, con molta più decisione di quanto non abbia fatto fino ad oggi, la carta del “gender”. Lo confermano le sue dichiarazioni dopo la virtuale nomination; e l’apertura di un dialogo immediato con Elisabeth Warren, la combattiva senatrice del Massachusetts che ha scelto di schierarsi con Hillary dopo averla a lungo osteggiata da posizioni “liberal” (ma è improbabile e non vantaggioso, io credo, un ticket del genere). Donne versus Trump, dunque. E donne come uno dei possibili tramiti verso i giovani, fino ad ora bacino privilegiato di Bernie Sanders, il rivale che Hillary, con l’aiuto attivo di Obama, sta cercando di portare dalla sua parte.

Conoscendola, Hillary Clinton starà volutamente lontana dal femminismo tradizionale. E’ ben noto che i Millennial – i potenziali elettori diventati maggiorenni dopo il 2000 – sono refrattari al femminismo di vecchio stampo e comunque “mobili” nel loro progressismo e nel modo di essere liberal. Diventa allora logico articolare semmai le opportunità delle donne in chiave di interessi economici e di vantaggi complessivi per il Paese – sono infinite le analisi che collegano aumento del PIL e riduzione del gender gap. Questo argomento è tanto più importante in un contesto sociale segnato da una vera e propria inversione delle “aspettative”, ormai decrescenti.

E il problema di Hillary – protagonista con Bill Clinton di una fase della globalizzazione che ha finito per generare molti perdenti e pochi vincenti (questa, perlomeno, è la percezione della disuguaglianza da parte della classe media americana) – è di riuscire a presentarsi come una risposta valida per il futuro, piuttosto che come una eredità del passato.

Hillary Clinton, del resto, ha dimostrato più volte una notevole capacità di adattamento. In particolare proprio nella sconfitta del 2008, quando accettò di collaborare con Barack Obama e anticipò, nel momento in cui veniva battuta, il successo di oggi: fu il famoso discorso sul glass ceiling, su quel “soffitto di cristallo” che Hillary rivendicò di avere almeno intaccato nel 2008, per poi infrangerlo otto anni più tardi. Vedremo a novembre se al di là del glass ceiling ci sia anche lo Studio Ovale.

Intanto, la traiettoria dal 2008 al 2016 dimostra l’impressionante “resilienza” di Hillary e sta dando i suoi frutti: sia perché i sondaggi di Obama sono risaliti (e il presidente uscente farà campagna per lei, assieme a Bill: una buona accoppiata maschile per la prima donna d’America), sia perché l’esperienza di Hillary come Segretario di Stato – un potenziale elemento di vulnerabilità, a cominciare dal mail-gate per finire con la Libia – appare in luce diversa nello scontro finale con la “volatilità” di Trump. È una tendenza che dovrebbe reggere all’impatto della strage di Orlando: e’ vero che Trump può giocare la sua carta anti-islamica ma e’ anche vero che Hillary appare più credibile sui temi della sicurezza nazionale.

Donne (da consolidare), giovani (da recuperare), esperienza (da far pesare in modo positivo). Tutto sommato, è una campagna che solo Hillary Clinton può perdere. In altre parole: sarà anche poco amata dal pubblico ma ha in mano le carte migliori. Ed è dotata della freddezza necessaria. Ciò che l’ ha indebolita nelle primarie (essere da decenni una protagonista della politica, anzi di una dinastia politica) potrebbe aiutarla nel confronto diretto con Trump.

La sensazione, tuttavia, è che Hillary non dovrà farsi tentare più di tanto dalla strada dell’anti-trumpismo: per ora ha resistito, di qui a novembre dovrà convincere gli americani su di sé, più che sui limiti dell’avversario. Se riuscirà, magari gli americani voteranno perfino per una donna.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa del 13 giugno 2016.