La nuova sinistra nell’Europa del Sud
Giovani, carini e disoccupati: questo il titolo di un film che raccontava le vicissitudini di un gruppo di ventenni nella Manhattan clintoniana. Quella generazione venne presto definita X, come fosse un’incognita: dopo l’ubriacatura edonista degli anni ’80, aveva visto morire la Guerra Fredda ancora con la cartella della scuola e si affacciava alla consapevolezza in un mondo che sembrava alla “fine della storia”, come pronosticato da Francis Fukuyama.
Sta di fatto che ora, in un pezzo d’Europa importante e sofferente, in paesi come la Grecia, il Portogallo e soprattutto la Spagna, battuti dalla crisi e dalle politiche di austerità, quella generazione è sulla ribalta della scena politica. Sono magari un po’ meno giovani, forse non tutti carini, ma sicuramente occupati – o meglio, impegnati: e si sono ritagliati uno spazio a sinistra della sinistra tradizionale, che diventa sempre più forte e radicato.
Il capostipite è sicuramente Alexis Tsipras, Primo Ministro greco, fondatore di quella SYRIZA che ha ribaltato il sistema politico del suo paese, polverizzato il PASOK (il partito socialista, che raccoglieva fino a pochi anni fa il 40% dei voti) e sfidato le rigide direttrici dell’Europa a trazione tedesca. Ha ottenuto una vittoria a metà, certo: ha dovuto fare marcia indietro rispetto alle promesse elettorali – sotto la minaccia di non poter pagare stipendi e pensioni – ma nonostante l’esito delle trattative sul debito non è stato disarcionato. Continua infatti a essere un punto di riferimento decisivo per il rinnovamento politico – a propulsione meridionale – del continente.
In Portogallo spiccano Caterina Martins e Marisa Matias, dirigenti del Bloco de Esquerda (Blocco di Sinistra), combattive e meticolose. La prima è stata la vera artefice dell’inedita maggioranza di governo di sinistra nel suo paese; la seconda, dopo un’attiva esperienza nel parlamento europeo, è stata candidata alle presidenziali di gennaio. Con meno di quarant’anni, ha duplicato i voti del suo partito, in un paese in cui le donne in politica hanno poco spazio, e in cui età, esperienza e prudenza sono considerate di per sé un valore.
Ma sicuramente il caso più eclatante, per molte ragioni – non ultime le sue radici nel movimento degli indignados (15M) e soprattutto la dimensione del Paese – è quello della Spagna.
Non c’è dubbio che Podemos, la creatura politica del giovane e brillante gruppo dirigente guidato da Pablo Iglesias e Íñigo Errejón, sia la maggiore rivelazione politica dalle elezioni europee del 2014. Ma in questi ultimi due anni si è reso evidente che la nuova sinistra spagnola, ormai al governo di città e anche di regioni importanti, più che una parete a tinta unita è un mosaico o una rete.
Ci sono i “Comuni” in Catalogna – dal nome del cartello elettorale “Barcellona in Comune” che nel maggio 2015 conquistò la capitale regionale – cresciuti intorno alla leadership di Ada Colau e Xavier Domènech; Compromís a Valencia, capitanato da Monica Oltra, fustigatrice della corruzione del PP al governo in quella comunità; le cosiddette Mareas (maree) in Galizia – nate sotto l’ala del padre nobile della sinistra autonomista, l’anziano Xose Manuel Beiras.
Si tratta di forze autonome, alcune preesistenti, altre frutto di vari processi di confluenza sulla spinta del 15M, in parallelo a Podemos. Ma contribuiscono a spiegare gli straordinari risultati elettorali della nuova sinistra spagnola alle politiche di dicembre: dei 69 deputati che sono andati in parlamento sotto l’etichetta del partito di Pablo Iglesias, alle cosiddette confluenze territoriali (gli apparentamenti a cui ha aderito Podemos in Catalogna, Galizia e Comunità Valenciana, senza presentarsi con sigle proprie) se ne devono 27. È la prima volta che esiste una forza così grande alla sinistra del PSOE (il partito socialista spagnolo, un tempo egemone sulla sinistra) ed è la prima volta che questa forza è centripeta, con impulsi autonomi ma dialoganti, che vanno dalla periferia al centro. Di conseguenza, il tema della plurinazionalità, centrale in questa fase della politica spagnola che molti definiscono “seconda Transizione” – la prima fu quella successiva alla morte del dittatore Francisco Franco nel 1975 – non è affatto rimosso da queste forze; piuttosto, ne è diventato uno degli elementi caratteristici.
Pur nelle diversità nazionali e locali, se si guarda alla storia e alla cultura politica di tutti questi dirigenti – portoghesi e greci insieme agli spagnoli – ci sono delle caratteristiche comuni, che in qualche modo aiutano a capire da dove vengano e a intuire dove vogliano andare.
Il primo elemento è quello della formazione politica, che affonda le radici nel movimento no-global a cavallo fra i due millenni. C’è chi è stato di persona alle proteste di Genova nel 2001 – come un giovanissimo Errejón, mentre Tsipras fu rimandato indietro dalla polizia appena sceso dal traghetto dalla Grecia – e chi no. Per ognuno di loro, però, quel ciclo di mobilitazioni fu un punto di partenza.
Il secondo elemento riguardale influenze culturali e politiche: c’è molto Sudamerica (dal Chiapas del subcomandante Marcos alle esperienze politico-economiche di Venezuela, Bolivia e Ecuador), ma anche molta Italia, soprattutto fra gli spagnoli. Iglesias ha espresso la sua ammirazione per la “rossa” Bologna e la tradizione politico-amministrativa del PCI; Ada Colau proprio di ritorno da un Erasmus nella Milano movimentista della seconda metà dei ‘90 decide di dedicarsi all’impegno sociale; Monica Oltra nel suo blog cita Enrico Berlinguer come modello. Influenze diverse nel tempo e nello spazio, ma che spingono tutte a voler diventare una sinistra che decide e governa, pur in stretto contatto con le mobilitazioni e le piazze.
È una novità importante, perché risolve il “trauma” politico delle sinistre comuniste spagnole, greche e portoghesi, cioè il “sorpasso” subito ad opera dei partiti socialisti, poi diventati forze di massa e di governo, durante le rispettive transizioni, benché nei decenni della dittatura i comunisti fossero stati il punto di riferimento dell’opposizione.
Il terzo elemento riguarda il loro punto di vista su due questioni decisive: il “welfare” e l’“Europa”. La maggioranza di questi dirigenti ha una formazione universitaria (molti di essi sono ricercatori e docenti, ancorché precari) che è stata possibile soltanto perché la Grecia, il Portogallo e la Spagna negli anni ‘80 entrarono nella CEE. E lo sanno: perciò nelle loro campagne in favore dello stato sociale e contro il modello economico dominante nell’Unione Europea – che nei loro paesi mette seriamente a rischio, a causa dei tagli, la spesa pubblica per istruzione e ricerca – c’è un elemento autobiografico.
Infine, questi leader politici appartengono tutti alla cosiddetta generazione Erasmus. La loro alfabetizzazione politica si compie avendo tutto il continente come punto di riferimento: molti di essi affrontano le prime prove elettorali proprio in Europa, dove si conoscono e fanno rete. I legami non sono stretti in virtù di una identificazione ideologica, sulla falsariga dei famosi “partiti fratelli”, ma per la profonda coscienza dell’importanza dell’arena politica europea. Questi dirigenti non condividono l’indifferenza verso l’UE tipica di alcune precedenti formazioni della sinistra radicale, né l’euroscetticismo proprio della destra xenofoba e nazionalista.
Resta da chiedersi se sia davvero nata una nuova “internazionale” – questa l’ambizione dei giovani leader – capace di cambiare i destini dell’Europa. Certamente non sarà facile: gli ostacoli sono l’inesperienza, la resistenza dei partiti politici che si sentono minacciati da una proposta alternativa ma non “antisistema”, la difficoltà di espandersi al di fuori della dimensione mediterranea. Ma è sicuro che una parte della cultura politica del continente l’hanno già cambiata.