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Il dossier immigrazione e i muri di Trump

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Nella sua prima conferenza da presidente eletto, l’11 gennaio, Trump aveva confermato che per fermare l’arrivo dei clandestini, il muro con il Messico si farà e a pagarlo sarà proprio il paese di Enrique Pena Nieto. A pochi minuti dall’annuncio il peso messicano aveva toccato il suo valore più basso da mesi. Un’emorragia di capitali e di persone in fuga verso gli Stati Uniti, complicata anche dal rialzo del prezzo del gas, a cui forse Pena Nieto rimedierà costruendo buoni rapporti con il vicino americano, sapendo però che ad ogni tuono di Trump contro le aziende che delocalizzano in Messico, potrebbero aumentare i messicani verso gli Usa. 

Tutti hanno ormai compreso che quelle di Trump non sono solo boutade e, forse, non lo sono mai state.

Dal primo giorno della campagna presidenziale, l’immigrazione è stata al centro del suo messaggio. Una narrazione che, a differenza di altri temi in agenda, non è stata affatto vaga. Il politicamente scorretto di Trump sull’immigrazione è entrato nella pancia di molti elettori, che all’indomani dell’8 novembre sentivano di poter finalmente venire allo scoperto. Come ha sostenuto provocatoriamente Michael Wolff, a differenza dei democratici incapaci di comprendere la realtà al di fuori dei propri gruppi di appartenenza, Trump usa “parole vere”.

E non è un caso che come “Attorney General”, ovvero Ministro della giustizia, Trump abbia scelto il deputato ultraconservatore dell’Alabama Jeff Sessions, sotto la cui ala il presidente si è protetto dalle accuse di razzismo durante la campagna elettorale. Sessions, che non ha mai negato di essere contrario all’immigrazione – tanto da essere anch’egli accusato di razzismo – e ha dichiarato davanti alla commissione giustizia del Senato per la sua nomina, che perseguirà “vigorosamente e immediatamente coloro che violano ripetutamente i nostri confini”. In altre parole, gli immigrati irregolari.

Ad affiancare Sessions, ci sarà John R. Kelly, alla guida del Dipartimento della sicurezza interna, la Homeland Security. Con lui, Trump ha scelto un altro generale in pensione (il terzo della squadra), un marine esperto del confine Usa-Messico e di America Latina. Se confermato nelle audizioni al Senato, anche Kelly sarà un enforcer della politica del neo-presidente, sebbene abbia dichiarato che il muro, da solo, non sarà efficace. A Kelly spetterà però il compito di occuparsi della barriera anti-migranti e, tra le altre, della più importante agenzia criminale investigativa dopo la FBI, cioè ICE (Immigration and Customs Enforcement).

Nonostante le promesse, il 45° presidente degli Stati Uniti non sarà in grado, almeno nell’immediato, di deportare gli 11 milioni di immigrati non-autorizzati presenti nel paese: il 3,5% della popolazione nazionale. Ma durante la sua campagna, Donald Trump ha anticipato di voler intraprendere una politica che potrebbe far salire significativamente il numero di espulsioni.

Nel suo “contratto con l’elettore americano”, Trump si è impegnato, fin dal primo giorno in carica, a rimuovere dal paese due milioni di “immigrati criminali illegali”.

A scorrere il piano in dieci punti elaborato da Trump, sul sito per la sua campagna, l’immigrazione è declinata unicamente sugli aspetti negativi, sulle parole vere che molti avevano timore di pronunciare prima delle elezioni: i migranti costano troppo, l’attitudine di questi al crimine, alle droghe e il rischio terrorismo che l’accoglienza comporta.

Tutto quello che Trump ha previsto per “rifare grande l’America” è in antitesi con la politica del predecessore Barack Obama, che nelle ultime ore prima di lasciare la Casa Bianca ha esteso ai cubani lo stesso trattamento degli altri migranti: nessuna facilitazione e stop alla residenza automatica. Una mossa che pone fine alla norma del 1996, nota come “wet foot dry foot” modificata all’epoca da Bill Clinton: ovvero un permesso di soggiorno automatico ai cubani. L’ultima decisione in tema di immigrazione e politica estera di Obama, è figlia del disgelo con L’Avana e soprattutto intende sfidare Trump, oltre che il Congresso: anche ad alcuni deputati democratici non è piaciuta. Ma arriva comunque tardi: dall’avvio delle discussioni con Cuba nel dicembre 2014, il numero dei cubani in America è aumentato – i migranti economici che Trump non vuole – e la maggior parte di loro, da anni negli Stati Uniti, hanno votato per Trump. Ma né a loro né a quest’ultimo piace l’accordo con Raul Castro, tanto che ha minacciato di modificarlo.

Andando ben oltre la questione cubana, il neo-presidente ha annunciato di voler rovesciare ogni misura obamiana concepita per estendere i benefit agli immigrati: il Social Security, Medicare e Obamacare (che Trump infatti vuole abrogare), l’inserimento dei rifugiati con un permesso a quattro anni negli Stati Uniti, l’amnistia verso i migranti non-autorizzati, l’estensione dei due programmi DACA e DAPA per permettere ai non regolari di restare a lavorare nel paese.

Tutte misure che per Trump pesano eccessivamente sul budget federale senza produrre risultati adeguati, oltre a rendere la nazione meno sicura. Ha così annunciato di voler  eliminare i finanziamenti alle “città-santuario” dell’immigrazione (25 città dove, per le leggi locali, non si può arrestare chi è privo di permesso di soggiorno), di impedire l’ingresso negli Usa a coloro che provengono dai paesi a rischio terrorismo o che non sono in grado di fare screening adeguati sui propri cittadini. In altre parole, molti paesi musulmani – e non soltanto. Una posizione comunque più sfumata, questa, rispetto alla sua idea iniziale di vietare l’ingresso a tutti i musulmani.

Con una narrazione che fa leva sulla paura per la sicurezza nazionale e la sottrazione di risorse economiche a danno degli americani, quale cittadino non sarebbe d’accordo con Trump?

E invece non è così semplice. Il Pew Research Center, a fine 2016, ha condotto un sondaggio, rilevando che meno della metà degli intervistati ritiene utile il muro al confine con il Messico.

Resta il fatto, tuttavia, che per mantenere le sue promesse sull’immigrazione, Trump potrebbe esercitare quello stesso “potere esecutivo” che egli ha contestato ad Obama.

Le due questioni centrali e più urgenti per il neo-presidente sono – oltre il muro su cui dovrà confrontarsi con il Congresso – l’allontanamento degli immigrati irregolari che hanno commesso reati e la fine del “catch and release”: secondo il suo nuovo approccio al problema, coloro che entrano illegalmente in Usa, saranno detenuti in attesa di espulsione. Un’idea presa forse a prestito dall’Europa, in preda all’emergenza migranti da anni: i centri di identificazione ed espulsione.

Questo significa che il dipartimento guidato da Kelly, la Homeland Security, dovrà irrigidire le direttive per gli agenti di frontiera. Ma proprio questi cambiamenti potrebbero comportare quegli aumenti nel budget federale su cui Trump ha motivato la pancia dell’elettorato e che ha imputato ai Democratici: l’ampliamento delle strutture di detenzione per i migranti, usate dall’ICE, e la crescita delle deportazioni, richiedono più staff e più risorse: già il 9 novembre era aumentato il valore delle azioni delle società che gestiscono le prigioni private per detenere gli immigrati.

Ma i tribunali che si occupano delle espulsioni degli irregolari sono già indietro di oltre 500mila istanze, mentre lo spazio per la detenzione dei clandestini può arrivare poco oltre i 40mila posti: ci sarà inevitabilmente un aggravio nei costi. C’è poi da considerare che l’immigrazione è un tema complesso: una recente pronuncia della Corte Suprema ha proibito la detenzione oltre i venti giorni, sia per adulti che per i minorenni.

Tra le promesse di Trump, di più probabile applicazione, potrebbe esserci l’annullamento della sospensione della deportazione per oltre 740mila migranti irregolari, concessa da Obama attraverso il programma DACA (Deffered Action for Childhood Arrivals), che permette agli stranieri senza permesso di soggiorno, arrivati da bambini negli Stati Uniti, di essere protetti dall’espulsione.

Il DACA, invocato per anni dagli irregolari residenti in America, fu creato dall’ex-presidente emanando un ordine esecutivo e non con una legge permanente. Basterà un colpo di penna per Trump per farne una deportazione di massa: la Homeland Security ha tutti i loro dati, essendosi registrati per la procedura di sospensione. Con altrettanta probabilità, Trump sospenderà il programma per l’accoglienza ai rifugiati siriani (10mila che si sarebbero sommati agli 85mila rifugiati musulmani già presenti dal 2002), un’altra promessa elettorale. Una misura draconiana, quella delle espulsioni ex DACA, che però costerebbe 600 miliardi di dollari e richiederebbe un contingente di 90mila persone, secondo il National Immigration Law Center.

Ma il neo-presidente ha dalla sua un Congresso a maggioranza repubblicana e – come ricordato da Julie Myers Wood, ex capo dell’ICE durante la presidenza di George W. Bush – Trump potrebbe invocare una norma contenuta nell’Immigration and Nationality Act del 1952 (tuttora in vigore) ripristinando quote o divieti di ingresso da alcuni paesi; il che gli permetterebbe di indirizzare migliaia di agenti e poliziotti locali verso lo sforzo per le deportazioni.

Gli immigrati non-autorizzati negli Stati Uniti, non sono peraltro aumentati negli ultimi anni. Impiegati per lo più in agricoltura e allevamento (26%), negli stati della Corn Belt, e nell’industria delle costruzioni (15%), secondo Pew gli irregolari sono stabili dal 2009, attorno agli 11 milioni; e rappresentano 8 milioni della forza lavoro Usa.

Persino gli immigrati messicani, il 52% del totale degli irregolari, sono diminuiti; mentre è aumentata la presenza dei migranti dall’America centrale. Ma quel che colpisce è che la maggior parte dei non-autorizzati negli Stati Uniti sono adulti residenti di lungo-termine (ben il 66%).

E, qualsiasi cosa intenda fare il presidente Trump sull’immigrazione, con numeri del genere non sarà come schiacciare un bottone.