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Il fattore social network nella corsa alla Casa Bianca

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La sera dell’8 novembre, all’inizio dell’”Election Night”, l’arrivo graduale dei dati elettorali ha fatto intravvedere il primo vero segnale di realtà alla fine della lunga maratona delle stime demoscopiche sulle elezioni americane. E si è capito che stava succedendo qualcosa di totalmente diverso da quello che sondaggi, analisti politici e commentatori avevano teorizzato per mesi. L’opinione pubblica mondiale si è come risvegliata, trovandosi di fronte a una situazione inattesa: quello che stava succedendo in America non era stato colto dai filtri degli osservatori – forse troppo spesso localizzati a New York o Washington.

Sembra banale, ma anche senza essere acuti osservatori o esperti di politica, un elemento avrebbe potuto aiutare meglio a farsi un’idea della popolarità e del sentore della piazza nei confronti degli aspiranti presidenti. O almeno della piazza virtuale: i profili sui social network dei due sfidanti. Ebbene, Hillary Clinton su Twitter, il giorno prima delle elezioni, raccoglieva circa 10,6 milioni di follower, mentre Donald Trump più di 13,8 milioni. La stessa cosa, in numeri ancora più ampi accadeva su Facebook, dove il magnate newyorkese registrava ben 13,8 milioni di like alla pagina, a fronte degli 8,8 milioni dell’ex Segretario di Stato.

Un altro fattore interessante è la data di “sbarco” dei candidati su Twitter: per Trump il lontano marzo 2009, mentre per Clinton solo l’aprile 2013. Il ritardo della candidata Democratica stride ancora di più se confrontato con il “battesimo” di Barack Obama: la sua iscrizione risale addirittura al marzo 2007.

Se si pensa all’importanza che hanno avuto i nuovi mezzi di comunicazione per la prima elezione di Obama e si collega questo fattore alla vittoria attuale di Trump, si comprende come la Clinton potrebbe aver pagato un doppio dazio sia nel 2008 (alle primarie contro Obama) che nel 2016. La mancata “cura” del popolo della rete potrebbe essersi trasformata poi in un mancato consenso nel paese e nelle urne – non dimenticando che la generazione under 35, la più presente online, aveva sostenuto in massa Barack Obama nel 2008 e nel 2012, ma anche Bernie Sanders, l’avversario di Hillary alle primarie.

Nel 2008, come è stato detto e ripetuto, la rete e i social irrompevano prepotentemente per la prima volta come carta vincente in una campagna elettorale, sia dal punto di vista comunicativo che organizzativo. Ma mentre in quella occasione veicolavano e amplificavano un messaggio di cambiamento in positivo (gli slogan di Obama: Hope, Change, Yes we Can), in questa occasione, di nuovo in maniera decisiva, hanno aiutato a caricare di “rabbia” la voglia di cambiamento che ha portato da un presidente Democratico all’outsider Repubblicano Trump. Questi alcuni dei suoi hashtag più virali: #MakeAmericaGreatAgain, #CrookedHillary, #CrookedMedia, #RepelAndReplace, #ObamacareInThreeWords, #HillaryForPrison, #CriminalEnterprise, #Dummies, #BigLeagueTruth, #DrainTheSwamp.

Sopra: un classico tweet di Donald Trump in campagna elettorale.

Trump si è fatto portatore e megafono del forte sentimento negativo che raccoglie e unisce coloro che nell’America profonda si sentono ai margini e non rappresentati, coloro che hanno mal digerito l’elezione di un nero alla Casa Bianca e coloro che sono stati colpiti dalla più grave crisi economica del dopoguerra. Non necessariamente per colpa delle politiche di Obama o per colpa dell’America liberal, anzi. Ma non ha importato: il suo richiamo in molti casi ha suonato come un “troll di tutto il mondo, unitevi!”. E i troll hanno risposto, producendo spontaneamente un numero spropositato di materiali spendibili in rete a favore del candidato repubblicano.

Abbiamo dunque assistito a un cambiamento fondamentale nell’utilizzo delle reti sociali. Donald Trump se ne è servito per diffondere messaggi divisivi e “partigiani”: il contrario del messaggio unificatore di Barack Obama nel 2008 – ad esempio: “non esistono Blue State o Red State, esistono solo gli United States”. Ma anche Hillary Clinton ha seguito lo stile del suo rivale. La spaccatura che sembra insanabile nell’elettorato americano, di cui testimoniano anche le manifestazioni delle ultime ore, animate soprattutto da giovani, è stata certamente alimentata dalla sua definizione di “basket of deplorables”, mucchio di miserabili, nei confronti di “metà” degli elettori di Trump.

E certamente Hillary Clinton non puntava a rimarginare quella spaccatura quando, dopo il voto, rivolgendosi ai suoi sostenitori nel Concession Speech ha affermato: “You represent the best of America” (voi siete la parte migliore del paese). Quasi una risposta a quello che la sera prima Trump aveva detto nel suo Victory Speech rivolgendosi a un’altra parte del paese: “The forgotten men and women of our country will be forgotten no longer” (le donne e gli uomini dimenticati di questo paese non lo saranno più).

Un altro elemento risalta in maniera inequivocabile, ritornando all’analisi dei profili social dei due candidati. Trump ha macinato oltre 34 mila “tweet”, mentre Clinton è ferma a 9.800. Certo, il Presidente è da più tempo su Twitter, e le sue attività precedenti da businessman e showman hanno contribuito all’uso massiccio che ne ha fatto, ciò non toglie però che anche dai social venga fuori il suo tratto di personalità compulsiva e irrefrenabile.

A questo va aggiunto un utilizzo più innovativo anche di Facebook, rete sociale che rispetto a Twitter tende a essere più statica – benché con una platea di pubblico molto più ampia. Anche qui Trump ha fatto la parte del leone, soprattutto con un uso smodato, quasi bulimico di Facebook Live. Quest’ultimo è stato presentato come strumento di comunicazione diretta con la gente, al fine di bypassare i media tradizionali bollati come ostili.

Tutto ciò rende evidente come il pieno uso delle potenzialità dei social network si sia sposato a meraviglia con i suoi messaggi sprezzanti e semplici allo stesso tempo, soprattutto diretti contro l’establishment di cui la sua avversaria sarebbe stata la personificazione. Anche le tante gaffe partorite in questi mesi dal candidato Repubblicano, spesso definite da disattenti analisti dei suicidi politici (quando Donald Trump non è certo il primo a servirsene in questa maniera), sono in realtà state utili ad amplificare e concentrare ancor di più i suoi messaggi. Clinton usa il “politically correct” ma in realtà è “corrupt”, e rappresenta Wall Street e non Main Street (la vera America) – per fare solo due esempi. Lo stesso partito Democratico dovrà faticare molto per togliersi l’odiosa etichetta che la campagna del candidato Repubblicano gli ha attaccato addosso con successo.

La comunicazione di Trump da questo punto di vista è stata infatti impeccabile: i media e di rimbalzo l’opinione pubblica hanno finito per concentrarsi quasi sempre su di lui e le sue provocazioni. Il messaggio di Hillary Clinton, di conseguenza, è risultato spesso a rimorchio, marginale, scontato.

Sicuramente non basta il piano comunicativo perché un candidato vinca su un altro. Ma se il messaggio da una parte riesce a intercettare le inquietudini (come immigrazione o sicurezza) e i bisogni (meno tasse e più lavoro) che il pubblico sente come prioritari in un dato momento, e dall’altra riesce a delegittimare con efficacia il candidato avversario, gran parte del gioco è fatto.

Lo slogan di Twitter recita, proprio sulla sua pagina iniziale: “È ciò che sta accadendo”. Forse l’analisi dei flussi comunicativi sui social network avrebbe aiutato il mondo a comprendere il vero umore dell’America meglio dei sondaggi. Ricordiamocene per la prossima volta.