L’operazione israeliana a Gaza “Barriera Protettiva” si è conclusa da appena un mese e già riemergono le consuete divisioni tra palestinesi in due blocchi (Gaza e Cisgiordania), che appaiono sempre più perseguire interessi difficilmente compatibili. Il Governo di riconciliazione nazionale – annunciato con un solenne accordo su un nuovo esecutivo tecnico apparentemente senza coloriture politiche, firmato nel giugno 2014 – stenta a decollare e non sembra essersi nemmeno avvantaggiato della solidarietà internazionale suscitata proprio dal recente conflitto e dalla simultanea crisi umanitaria scoppiati a Gaza (2.143 vittime e circa 100.000 sfollati o rifugiati interni).
Il premier Rami Hamdallah, precedente premier dell’Autorità Palestinese, formalmente a capo del nuovo esecutivo tecnico, ha recentemente ammesso che non esiste ancora un dettagliato piano di governo per implementare l’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah, e che al momento ci sono solo le dichiarazioni di intenti espresse dalle due parti. Tuttavia, il governo avrebbe chiari i punti da discutere: l’istituzione di un comitato legale per dirimere la questione dei 45.000 impiegati assunti da Hamas nella Striscia dopo il 2007; lo smantellamento o la conservazione dell’apparato indipendente di sicurezza comandato da Hamas a Gaza; l’impellente crisi energetica affrontata dalla Striscia per far fronte alla quale occorrono almeno 470.000 euro solo per mettere in funzione dei pannelli solari; il problema pressante dell’autorità che deterrà il monopolio sul controllo dei varchi di accesso di Rafah, Erez e Karni; l’ingresso e la supervisione sull’utilizzo dei materiali necessari alla ricostruzione introdotti nella Striscia, e l’utilizzo dei fondi dei donatori internazionali impegnati nella stessa ricostruzione. Ad oggi, su tutte queste decisioni nevralgiche per il funzionamento del Governo di riconciliazione nazionale, nessun accordo è stato raggiunto, ad eccezione della decisione di corrispondere dei sussidi equivalenti a sei mesi di canone d’affitto a tutte le famiglie le cui case siano andate distrutte nella recente guerra: un gesto meramente simbolico di solidarietà nazionale.
Ed è proprio la solidarietà nazionale ad esser stata assente nella gestione della guerra e del dopoguerra, con Fatah e l’ANP occupate a smarcarsi dalla responsabilità per le cause più prossime dell’operazione israeliana: il lancio di razzi e l’attentato culminato nell’assassinio dei tre giovani coloni condotto da cellule militari affiliate ad Hamas nel distretto di Hebron lo scorso 12 giugno. Ciò è avvenuto anche mentre i bombardamenti, l’isolamento e la totale sospensione di servizi primari e attività produttive colpivano per 50 giorni i soli abitanti della Striscia e non i palestinesi dei Territori. Questi ultimi, tuttavia, a differenza dei loro dirigenti – che non si sono nemmeno recati nella Striscia di Gaza per esprimere sentimenti di cordoglio e responsabilità nazionale – hanno organizzato manifestazioni spontanee in tutta la Cisgiordania, denunciando la collusione della leadership di Fatah con la politica d’occupazione israeliana e l’intensa collaborazione dell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi con il governo di Benjamin Netanyahu.
Si è dunque scavato un fossato sempre più evidente tra opinione pubblica e leadership di Fatah: un divario alimentato dalla noncuranza di una classe dirigente che dal 2006 non passa più per le urne e non gode più di alcuna legittimità politica. Inoltre, la sua autorevolezza è insidiata anche all’interno da concorrenti del calibro di Mohamed Dahlan, ex capo della sicurezza di Fatah, e Marwan Barghouti, da anni “potenziale premier” detenuto in un carcere israeliano di massima sicurezza, il cui nome non è mai stato inserito (deliberatamente) da Abu Mazen nelle liste di scambi di prigionieri.
Va detto che la leadership di Fatah aveva visto erodersi i propri consensi in Cisgiordania già prima della recente guerra, a seguito dei numerosi scandali finanziari che l’avevano coinvolta: 60 casi di malversazioni finanziarie soltanto nel 2013 ed un buco di 70 milioni di dollari denunciato dallo stesso Rafik Natsheh, capo della Commissione di lotta contro la corruzione, istituita dall’ANP su pressione dell’opinione pubblica. Ma un ulteriore calo di consensi si è verificato nel corso dell’estate: un sondaggio dell’autorevole think tank palestinese CPSR (Center for Policy and Survey Research), condotto tra il 26 e il 30 agosto (a guerra appena conclusa), ha rivelato che tra il giugno 2014 e fine agosto la popolarità di Fatah è praticamente crollata, con i consensi per l’ANP scesi al 30%, quelli personali di Abbas al 39% e quelli del premier Hamdallah al 35%. Questo mentre la popolarità di Haniyeh come potenziale premier del Governo di unità nazionale è parallelamente salita al 61% – dal 41% stimato precedente alla guerra – e quella di Hamas giunta addirittura all’88%. Da questo sondaggio, realizzato tanto tra i palestinesi di Gaza che dei Territori – e con leggerissime variazioni tra i due territori – emerge chiaramente una forte volontà palestinese transpartitica di superare l’attuale status quo anche attraverso un rinnovato ricorso a pratiche violente (come l’Intifada, sostenuta dal 60% degli intervistati), mentre cresce il numero di coloro che sarebbe favorevole all’adozione di misure shock come la dissoluzione dell’ANP (sostenute dal 42% dei palestinesi). Irrisoria appare, invece, la percentuale di palestinesi che credono ancora nella cosiddetta soluzione dei due Stati (pari al 38%), mentre il 72% vorrebbe che la strategia della “resistenza” (ovvero di Hamas) venisse esportata anche in Cisgiordania, come unico mezzo per riottenere i propri territori (che per il 63% degli intervistati non coinciderebbero con la Linea Verde del 1967).
Il quadro che ne emerge è quello di una forte radicalizzazione della popolazione media in Cisgiordania, che non crede più alla propria leadership né al rilancio di negoziati con Israele, e di rinnovato sostegno ad Hamas nella Striscia – dopo la disaffezione popolare che aveva colpito la “resistenza” negli ultimi anni a seguito della parabola negativa del partito-gemello dei Fratelli Musulmani nel vicino Egitto e dell’involuzione dittatoriale e sanguinaria dell’alleato siriano Bashar al-Assad. Come ben spiega Jean-François Legrein, ricercatore all’IREMAM, su Orient XXI, Hamas sarebbe uscito dalla guerra non solo rafforzato, ma soprattutto in possesso di una chiara strategia politica: inizialmente spinto verso un Governo di riconciliazione nazionale per necessità politica, dettata dal pesante isolamento internazionale e dalla grave crisi economica interna, avrebbe ora deciso di quella di “Hezbollahizzarsi”, ovvero di seguire le orme del successo di Hezbollah nel Sud del Libano. Questo significa che Hamas vede positivamente (e quasi con sollievo) la possibilità di restituire le redini del governo civile ed amministrativo all’ANP e rimettere l’autorità formale all’OLP, mentre ricostruisce la sua rete assistenziale e la sua autonomia organizzativa nella Striscia, al contempo senza smantellare, ma anzi rafforzando la sua ala militare. Per questa ragione Hamas non avrebbe nemmeno interesse a spingere immediatamente verso nuove elezioni, ma piuttosto a scaricare su Fatah la responsabilità della gestione dell’economia nella Striscia, in preda ad una crisi disastrosa; e vorrebbe al contempo capitalizzare sul rinnovato patriottismo palestinese generato dalla guerra e spendersi politicamente su questioni simboliche come la liberazione dei prigionieri. Potremmo aggiungere che il Governo di riconciliazione nazionale, dunque, più che un “sotterfugio” – come lo definisce Legrein – costituirebbe esattamente la scelta ragionata di Hamas per avviare con l’ANP e l’OLP un nuovo rapporto ibrido di collaborazione politica e di forte autonomia militare e tattica, simile a quello che Hezbollah intrattiene con il governo di Beirut.
Proprio questo approccio è stato ben sintetizzato dal giornalista israeliano Ehud Yaari nella formula bullets and ballots (proiettili ed elezioni). Tale strategia permetterebbe, infatti, ad Hamas di presentarsi ai cittadini palestinesi come sinceramente interessata alla tenuta del Governo di unità nazionale, senza però rinunciare alla sua logica interna, ai suoi apparati di sicurezza e alla resistenza armata, né compromettersi ulteriormente con la difficile gestione quotidiana dell’ANP o con decisioni impopolari come il riconoscimento dello Stato Ebraico o degli Accordi di Oslo. A conferma di ciò andrebbero le dichiarazioni di Yahya Moussa, membro di Hamas nel Consiglio Legislativo Palestinese, sul fatto che non spetti ad Hamas negoziare con Israele, ma piuttosto all’ANP.
È chiaro, però, come la vittoria di Hamas sia soltanto relativa, e vada rapportata alla disfatta totale di Fatah, incapace di promuovere visioni politiche alternative oltre alla “normalizzazione” e palesemente pronta ad ogni genere di compromesso per permettere ai donor internazionali di ritornare ad investire in Palestina il prima possibile e continuare a pagare gli stipendi della sua onerosa burocrazia (160.000 impiegati). Nel breve termine il rilancio della “macchina della ricostruzione” – un’impresa stimata a 7,8 miliardi di dollari – potrebbe distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica palestinese dalle questioni politiche per rivolgerla alle ancor più pressanti necessità economiche; ma nel lungo termine la vera questione da affrontare resta quella dell’impraticabilità della soluzione dei due Stati (peraltro fortemente impopolare). Ed esiste la concreta possibilità che i palestinesi, attraverso le urne o un referendum, possano un giorno decidere a maggioranza di sbarazzarsi dell’ANP cancellando di un colpo l’impianto degli Accordi di Oslo per appoggiare l’opzione di uno Stato unico: in questa entità statuale, andrebbero a costituire un blocco demografico di circa cinque milioni di persone in costante e forte crescita.