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La rivolta pacifica e non rivoluzionaria di Hong Kong

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È stata ribattezzata “Umbrella Revolution”, anche se le decine di migliaia di manifestanti che dalla sera del 26 settembre hanno invaso le strade di Hong Kong non vogliono in effetti fare una rivoluzione. Gli ombrelli li usano non tanto per ripararsi dal sole e dalla pioggia quanto dallo spray urticante al pepe che la polizia ha usato per cercare di fermarli. La protesta, che ha come scopo di ottenere dalla Cina un vero suffragio universale per l’elezione del capo del governo locale nel 2017, non è scoppiata come un fulmine a ciel sereno ma ha radici che affondano lontano nella storia del Territorio.

Quando nel 1997 Hong Kong è tornata sotto la sovranità della Repubblica Popolare, in seguito a un accordo firmato da Londra e Pechino senza consultare la popolazione nel 1984, il Partito Comunista promise che la città avrebbe goduto di “un alto livello di autonomia per altri 50 anni” in nome del principio “Un Paese, due sistemi”. Poiché nella Basic Law, la piccola Costituzione di Hong Kong, è scritto che il sistema elettorale deve arrivare come “scopo finale” all’elezione del chief executive “tramite suffragio universale”, più volte negli ultimi dieci anni i movimenti pro-democrazia dell’ex colonia inglese hanno chiesto alla Cina di concederlo. Pechino ha sempre rimandato fino a promettere la riforma del sistema per le elezioni del 2017. A giugno il movimento Occupy Central with Love and Peace – fondato dai professori Benny Tai Yiu-ting e Chank Kin-man, insieme al reverendo Chu Yiu-ming – ha promosso un referendum non ufficiale sul sistema elettorale desiderato dai cittadini che ha portato a votare 800mila persone. La tensione è cresciuta ancora dopo la consueta “marcia per la democrazia” che ha visto sfilare l’1 luglio quasi 500mila persone.

La crescente attesa si è trasformata però in delusione quando il 31 agosto il Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo Cinese, indicato nel 2004 come unico organismo in grado di legiferare sul sistema elettorale in uso a Hong Kong, ha deciso di fare concessioni solo parziali. Oggi la guida dell’esecutivo di Hong Kong viene eletta da una commissione elettorale composta da 1.200 membri delle élite industriali e politiche. Queste vengono nominate metà dal popolo e metà dalle corporazioni vicine a Pechino. Se la Cina ha deciso da una parte di concedere elezioni dirette per il 2017, dall’altra ha stabilito che i votanti potranno scegliere il capo del governo solo da una lista di “due o tre candidati” selezionati in precedenza da Pechino in base al loro ”amore patriottico per la Cina e Hong Kong”.

Il dietrofront ha fatto infuriare i movimenti democratici. Occupy Central ha organizzato la sua prima grande manifestazione, il “banchetto per la democrazia”, per il primo ottobre in occasione del 65esimo anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese. La dimostrazione si sarebbe dovuta tenere nel Chater Garden, situato nel centro finanziario di Hong Kong: il distretto Central. Il movimento è stato però anticipato dagli studenti liceali, che guidati dal 17enne Joshua Wong hanno cominciato dal 22 settembre a disertare le lezioni per protestare. Con il passare dei giorni si sono uniti a loro gli studenti universitari e i professori. Sabato 27 settembre la protesta ha subito una svolta: il numero di manifestanti è salito a migliaia di persone e la polizia ha reagito usando in modo spropositato la forza, assalendo i dimostranti con spray urticante al pepe e lanciando bombolette di gas lacrimogeno. Almeno 34 persone sono state trasportate in ospedale, altre 70 sono state arrestate (e poi rilasciate).

La polizia è dunque intervenuta per fermare la protesta, ma ha raggiunto lo scopo opposto: irritata dai metodi brutali delle forze dell’ordine, la popolazione di Hong Kong si è riversata nelle strade vicino ad Admiralty, a Mong Kok e Causeway Bay nei giorni successivi. Mentre i giornali del Territorio accusavano le forze dell’ordine, per allentare la tensione il capo dell’esecutivo Leung Chun-ying ha ritirato la polizia anti-sommossa, chiedendo però ai leader della protesta di abbandonare la piazza “perché la Cina non cederà”. I leader della protesta invece, chiedendo a Pechino di tornare sui suoi passi e a Leung di dimettersi per non aver difeso gli interessi della popolazione, hanno incitato la gente ad andare avanti ma sempre in modo pacifico perché questa “non è una rivoluzione, vogliamo solo quello che ci spetta”. L’atteggiamento dei manifestanti è stato coerente e composto: dopo essersi accampati lungo le strade anche di notte, le hanno ripulite prima di andare via e sono rimasti sempre calmi nonostante i momenti di tensione.

Non a caso i simboli della protesta entrati nell’immaginario collettivo sono tutti “difensivi”: dagli ombrelli alle maschere da snorkeling fissate sui volti dei manifestanti con pellicola di plastica, fino ai nastri gialli che i simpatizzanti si sono attaccati sulle giacche alle magliette nere, solitamente usate per ricordare il massacro di Piazza Tienanmen. Su internet sono poi circolati numeri emblematici: dal “8964”, che indica la data di Tienanmen, al “689”, il numero dei voti con cui Leung è stato eletto dal comitato dei 1200 “grandi elettori”, a significare che non rappresenta tutti i sette milioni di abitanti della regione amministrativa speciale cinese.

Nonostante le buone intenzioni della protesta, la città ha subito ugualmente dei danni, come ha sottolineato la stampa vicina al Partito Comunista in Cina: la Borsa ha perso quasi due punti percentuali, le strade principali di Hong Kong sono rimaste bloccate, molte linee di autobus sospese. Come dichiarato dal cofondatore di Occupy Central Chan Kin-man, “noi manifestiamo contro gli ordini del governo centrale di Pechino, quindi siamo pronti ad essere arrestati. Siamo professori, intellettuali, bravi cittadini, siamo consapevoli che quello che stiamo facendo, anche se è pacifico, è illegale. E se ci arresteranno non ci faremo difendere da avvocati. Noi, bloccando il centro, violiamo la legge ma lo facciamo per suscitare la consapevolezza, la discussione della gente, la loro simpatia”.

Se Pechino ha all’inizio oscurato la protesta, cancellando dai social network cinesi ogni notizia riguardante gli studenti di Hong Kong, ha affidato in seguito al Global Times un giudizio secco sugli eventi: “Come cittadini della Cina continentale proviamo dolore nel vedere il caos a Hong Kong. La colpa è delle forze dell’opposizione radicale, che ha danneggiato l’immagine globale di Hong Kong, mostrando la faccia turbolenta della città. Gli attivisti radicali sono destinati a fallire. I gruppi di opposizione sanno bene che è impossibile modificare la decisione del Comitato Permanente”. E ancora: “L’intervento a fianco della polizia [di Hong Kong] delle [nostre] forze armate potrebbe velocemente riportare la stabilità in città”.

Il futuro è incerto: difficilmente la Cina invierà l’esercito, ma il fatto stesso che l’ipotesi sia circolata fa capire quanto Pechino prenda seriamente la protesta. E mentre il Ministero degli Esteri del Dragone fa di tutto per allontanare le critiche, chiedendo ai Paesi occidentali di non immischiarsi nei suoi affari interni, non c’è dubbio che il principio “Un Paese, due sistemi”, che avrebbe potuto fare da modello anche per Taiwan, abbia subito un duro colpo.

 

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