La Giordania è fortemente esposta alla minaccia delle milizie jihadiste dello Stato Islamico (IS) che hanno instaurato tra il nord della Siria e le province orientali irachene il califfato islamico. La conquista della città irachena di Rutba, a un centinaio di kilometri dal confine giordano, lo scorso 22 giugno ha evidenziato i rischi derivanti dalla proliferazione di cellule terroristiche islamiste nel regno hashemita.
A differenza di Siria e Iraq, contraddistinti da fenomeni di settarismo e di esclusione politica, la Giordania si presenta come un paese etnicamente più omogeneo – sebbene nel paese i giordani di origine palestinese rappresentino circa la metà della popolazione totale – con un esercito coeso e fedele alla corona hashemita. Inoltre, il paese fa parte di un sistema di sicurezza e di alleanze filo-occidentali più affidabile rispetto ai suoi vicini regionali. Ad alimentare i timori di Amman circa la tenuta della propria sicurezza vi sono tuttavia la compresenza di più fattori direttamente connessi tra loro: circa la metà dei confini giordani sono minacciati dalla presenza dei gruppi di Jabhat al-Nusra (JaN) e dell’IS; anche sul territorio giordano si registra una significativa presenza di cellule salafite e/o qaediste; è crescente il numero di siriani e iracheni residenti nei campi profughi del nord; non si è mai del tutto placato il malcontento popolare nelle zone più depresse del paese. Si tratta di fattori che alimentandosi l’un l’altro potrebbero sfociare in un contesto di emergenza difficilmente controllabile dalle sole autorità giordane.
Le infiltrazioni jihadiste e il loro annesso potenziale destabilizzante non rappresentano ad ogni modo una novità in un paese che anche nel recente passato ha vissuto una breve stagione di violenze: nel periodo 2003-05, a seguito dell’invasione statunitense dell’Iraq, la Giordania conobbe una serie di attentati terroristici, di cui il più violento provocò una sessantina di morti nella capitale Amman nel 2005. Tali attacchi furono rivendicati dal gruppo di Al-Qaeda in Iraq (AQI), antesignano proprio dell’IS, e guidato dal jihadista giordano Abu Musab al-Zarqawi. Il movimento, sfruttando il malcontento popolare e l’antiamericanismo diffuso nell’area, riuscì allora a trovare un appoggio nei salafiti radicali giordani per condurre sia azioni terroristiche sia il reclutamento di uomini votati alla causa jihadista. Solo pochi anni prima, un altro miliziano qaedista di origini giordane, Abu Qatada, aveva organizzato molteplici attentati contro obiettivi occidentali in Giordania. Il pericolo di una Giordania nuovamente terra di reclutamento è più vivo che mai, specialmente dopo che nell’aprile scorso diversi membri giordani dell’IS hanno postato su YouTube un video in cui inneggiavano al rovesciamento di re Abdullah II. Secondo le autorità locali in questi tre anni circa 2-3.000 jihadisti giordani si sono uniti alle milizie islamiste tra Siria e Iraq, di cui circa la metà si è unita volontariamente all’IS.
Un numero destinato a crescere qualora il reclutamento dovesse farsi più pressante nelle regioni meno sviluppate del regno dove fasce popolari più disagiate e meno scolarizzate stanno fornendo il proprio sostegno alle milizie islamiste: Maan, Rusaifa e Zarqa stanno divenendo i centri principali dove sta progredendo il sostegno al jihadismo militante. Sebbene gran parte della popolazione locale simpatizzi più con gli islamisti di Jabhat al-Nusra che con quelli dell’IS, il continuo emergere negli ultimi due mesi di cortei in favore del califfo Al-Baghdadi e dei suoi uomini ha allarmato le autorità di Amman: in particolare Maan, epicentro delle maggiori proteste e con una comprovata tradizione anti-monarchica, è stata posta sotto stretto monitoraggio dai servizi di sicurezza e intelligence giordani. Una situazione esplosiva che Mohammed Farghal, direttore generale del think tank giordano Center for Strategic Studies, ritiene in parte favorita non solo dalla scarsa attenzione delle autorità centrali nei confronti delle periferie, ma anche dalla politica di contrapposizione praticata dalle stesse autorità verso Jabhat al-Amal al-Islami, meglio conosciuto come Islamic Action Front, rappresentante l’anima politica della Fratellanza musulmana di Giordania.
Secondo il General Intelligence Department, l’agenzia dello spionaggio giordano, lo Stato Islamico starebbe guadagnando ampio consenso anche presso i rifugiati siriani e iracheni. Per evitare che la maggior parte degli oltre 1,5 milioni di uomini presenti nei campi a nord del paese (Zaatari, Mrajeeb al-Fhood e Azraq) entrino in contatto con le cellule jihadiste, il governo ha disposto il trasferimento di molti di loro nelle aree urbane, lasciandone circa il 20% nei campi. Uno spostamento del genere nelle città pone evidentemente tuttavia due problemi: uno strettamente di ordine pubblico, l’altro di sicurezza interna. L’arrivo nelle città di “ospiti stranieri” rischia di creare sia animosità tra cittadini giordani e profughi – i quali potrebbero essere percepiti dai primi come dei concorrenti nel mondo del lavoro e dell’assistenzialismo sociale – sia difficoltà di monitoraggio degli individui e delle loro attività con soggetti non ben identificati da parte delle autorità locali di sicurezza. È dunque una soluzione che potrebbe causare altri problemi.
Intanto, nel tentativo di dare una risposta concreta alla minaccia fondamentalista, il governo del premier Abdullah Ensour ha deciso di avviare una serie di operazioni su più fronti: ha inviato 10 unità del 71st Counterterrorism Battalion a Karameh, lungo la frontiera con l’Iraq; ha autorizzato l’esercito giordano ha reclutare il prima possibile 3.000 nuove unità nella gendarmeria; al fine di monitorare il reclutamento e il flusso di jihadisti giordani da e verso la Siria e l’Iraq, ha promosso una revisione delle leggi anti-terrorismo e sulle telecomunicazioni con l’aggiunta di alcuni emendamenti più restrittivi.
Proselitismo, prossimità della minaccia jihadista e pericolo di un effetto spillover nel paese rappresentano dunque le principali minacce non solo per la Giordania, che suo malgrado è diventato un nuovo fronte caldo della sicurezza regionale, ma anche per i molteplici interessi degli attori esterni direttamente coinvolti negli affari di Amman. Gli Stati Uniti, principale partner internazionale di re Abdullah e legato al regno hashemita da una stretta cooperazione strategico-militare, potrebbero utilizzare il territorio giordano come testa di ponte per condurre le operazioni mirate di counterterrorism/counterinsurgency (nel paese sono già presenti un migliaio di militari USA con compiti di addestramento e formazione delle forze giordane nella base di Azraq, nel governatorato di Zarqa) contro i jihadisti in Iraq e in Siria. Sebbene ufficialmente non abbiano ancora assunto decisioni in favore della corona hashemita, anche l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo – che peraltro spingono per un ingresso della Giordania nel Consiglio di Cooperazione del Golfo al fine di creare un più ampio fronte di stabilità – potrebbero fornire nel breve periodo un loro supporto diretto, politico e militare ad Amman. Infine, anche Israele ha lasciato intendere che non resterà passiva di fronte all’avanzata dello Stato Islamico nel regno hashemita.
Come ha affermato l’analista politico giordano Oraib al-Rantawi “il pericolo [IS] è alle porte” e la Giordania rappresenta dunque una sorta di linea rossa invalicabile oltre il quale il jihadismo non deve sfondare. Resta da vedere quale sarà il modus operandi che il re e le autorità giordane adotteranno ma, soprattutto, bisognerà capire se il timore di una possibile instabilità del regno potrà fungere nuovamente da collante nazionale e da deterrente contro le aspirazioni egemoniche degli islamisti.