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L’Iraq e il volto più violento di Al-Qaeda

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Nel momento in cui lo “Stato Islamico in Iraq e nel Levante” (ISIS) continua ad avanzare in Iraq alla conquista di nuove città, il 12 giugno l’organizzazione di “Al-Qaeda nel Maghreb Islamico” (AQIM) ha diffuso sui siti jihadisti un comunicato ufficiale con cui rivendica un recente attentato in Tunisia – si tratta dell’attentato contro l’abitazione del ministro dell’Interno tunisino, Lotfi Ben Jeddou, il 28 maggio scorso, a Kasserine, vicino al confine con l’Algeria e in prossimità di Djebel Chambi, roccaforte dei jihadisti tunisini di Ansar al-Sharia. Il fatto è singolare in quanto si tratta della prima rivendicazione ufficiale da parte di AQIM di un’operazione terroristica in Tunisia. Nel frattempo, il generale libico Khalifa Haftar sta proseguendo la sua operazione “Dignità” contro il terrorismo, mettendo in guardia con crescente insistenza dalla presenza in Libia proprio di uomini dell’ISIS.

Quale legame possiamo rintracciare tra il ruolo dell’ISIS in Iraq e Siria e un fatto accaduto in Tunisia, nonché gli sviluppi in corso in Libia? Il punto è che l’avanzata dello Stato Islamico nell’area mediorientale non soltanto sta ridando linfa vitale alle realtà jihadiste del Nord Africa, ma si fanno insistenti le voci sulla stampa maghrebina di un legame importante tra le due realtà: tanto che si inizia a parlare di un ISIM, uno “Stato Islamico nel Maghreb Islamico”, che potrebbe sostituire la sigla di AQIM e raggruppare le formazioni jihadiste nate e consolidatesi dopo l’ondata della cosiddetta “primavera araba” in questa regione (prima fra tutte Ansar al-Sharia, attualmente presente e in Tunisia e in Libia). Ma c’è anche un altro collegamento: si sta palesando in modo definitivo la rottura con la “vecchia” Al-Qaeda, quella incarnata oggi da Al-Zawahiri.

Per comprendere meglio il motivo per cui l’ISIS ha scelto di aggiungere il termine storico “Sham” (Levante) al suo nome ufficiale e per cui oggi marcia verso Baghdad, è necessario fare un passo indietro di 1400 anni. Damasco, nel cuore della regione dello Sham, fu la prima capitale del Califfato islamico (quello omayyade), seguita da Baghdad (Califfato abbaside). È il forte valore simbolico di queste terre ad attirare combattenti da tutto il mondo e suggellare la legittimità religiosa all’ISIS. L’organizzazione jihadista, che ha scelto per questo di chiamarsi “Stato Islamico”, vuole marciare verso Baghdad per annunciare da qui la restaurazione del Califfato.

Per ora, l’ISIS sta dando alle comunità islamiche sunnite deluse dai propri governi (come nel caso dell’Iraq a guida sciita) quelle risposte che la Al-Qaeda di Osama bin Laden era riuscita a dare negli anni Novanta, con il triste e tragico epilogo dell’11 settembre. Quella Al-Qaeda oggi non esiste più, ma c’è l’ISIS, un’organizzazione più determinata, ma soprattutto più violenta, che incarna lo spirito jihadista estremo di Abu Musab al-Zarqawi, il “tagliagole” che aveva fondato nei primi anni del nuovo millennio in Iraq Al-Qaeda in Mesopotamia, prima pietra fondante dell’ISIS.

Alla fine del 2013, mentre infuriava la guerra in Siria e l’ISIS aveva il pieno controllo dell’area di Raqqa, nel nord-est della Siria (e a ridosso del confine iracheno), era divampata una protesta a Ramadi, nell’Iraq occidentale, contro la politica di emarginazione dei sunniti da parte del governo di Nuri al-Maliki. I violenti scontri che ne derivarono si estesero presto a Falluja, roccaforte sunnita e città-simbolo per la corrente jihadista globale. Fu in quell’occasione che l’ISIS ricordò al mondo occidentale, a quello arabo-musulmano, alla comunità jihadista globale e alle autorità irachene di essere ancora presente in Iraq, nonostante il gravoso impegno in Siria.

La conquista della parte nord-orientale della Siria e di quella occidentale dell’Iraq – due aree confinanti – da parte dell’ISIS evidenziano anche l’intenzione dell’organizzazione di trasformare in realtà il proprio nome, fondando – come già accaduto a Raqqa – un vero e proprio Stato. Le sue finanze sarebbero garantite dalla vendita sul mercato nero del petrolio derivante dall’occupazione dei giacimenti di Deir ez-Zur, a sud di Raqqa, e di Mosul, nel nord dell’Iraq.

Dal punto di vista geopolitico, ciò che sta accadendo oggi in Iraq è la conseguenza di tre realtà. La prima è la mancanza nel Paese, dal 2003 ad oggi, di uno Stato forte in grado di controllare il territorio ma soprattutto di dare risposte a tutte le comunità confessionali del Paese. La seconda realtà, fondamentale per inquadrare le violente azioni dell’ISIS in Iraq, è lo scontro confessionale sciita-sunnita nel Medio Oriente. A differenza di dieci anni fa, l’ISIS oggi ha bisogno del consenso della comunità sunnita, esasperata dal potere sciita sostenuto dall’Iran, e sta concentrando i suoi attacchi sui membri, in buona parte sciiti, degli apparati di sicurezza iracheni. Ciò si inserisce nel contesto di un generale inasprimento del conflitto civile sunniti/sciiti, e al contempo lo alimenta. Un ulteriore scenario possibile (come osserva il quotidiano tunisino Al-Chourouk) è che vi sia una strategia americana che permetta l’estensione dei gruppi estremisti nella regione araba e la loro uscita dalla clandestinità, per poter essere meglio individuabili e vulnerabili – sia dalle forze di sicurezza locali sia dagli strumenti più sofisticati a disposizione degli Stati Uniti.

C’è da prendere in considerazione un altro aspetto fondamentale, tutto interno al mondo jihadista: lo scontro ideologico e di leadership fra l’egiziano Ayman al-Zawahiri, capo della storica organizzazione di Al-Qaeda, e il comando dell’ISIS, guidato da Abu Bakr al-Baghdadi (il baghdadiano). Non soltanto Al-Baghdadi ha trasgredito l’ordine di Al-Zawahiri di ritirarsi dalla Siria, ma, attraverso il suo portavoce in Siria, Al-‘Adnani, ha di fatto estromesso il leader egiziano, presentandosi all’audience jihadista come il nuovo Osama bin Laden (finora con un buon successo). È infatti acclamato per i successi ottenuti in Siria e per aver portato avanti in modo persistente e continuo la jihad in Iraq, anche dopo il ritiro delle forze americane, contro il governo centrale. Ma soprattutto, è il discepolo a cui Bin Laden diede le chiavi dello Stato Islamico da fondare, o, secondo la dialettica salafita-jihadista, ripristinare. Ciò fa di lui il leader incontrastato della jihad globale, in grado di attirare adepti e volontari da tutto il mondo, riportando la minaccia qaedista su un livello pragmatico e non soltanto teorico, e rendendo l’ipotesi di un nuovo 11 settembre più realistica che mai.