Il numero di aborti nel 2013 è tornato ai livelli, molto bassi, del 1973 – l’anno della sentenza della Corte suprema nel caso Roe vs. Wade, che legalizzò l’interruzione di gravidanza. Eppure, in America il ricorso a questa procedura è sempre più un dramma sociale, una dichiarazione di povertà.
Quasi il 60% delle donne che ricorrono all’aborto ha infatti dovuto affrontare, nello stesso anno, un evento che ha peggiorato la loro qualità di vita: il 20% ha perso il lavoro, il 16% si è separata dal partner, il 14% non è riuscito a pagare l’affitto o il mutuo per la casa e il 12% ha dovuto trasferirsi, a volte in un altro stato, per pagare meno tasse. Secondo una recente indagine del centro di ricerca non-profit Guttmacher Institute, nel 2013 il 42% delle donne che hanno abortito vive sotto la soglia di povertà, ovvero le loro entrate sono inferiori ai 10mila dollari l’anno (secondo il criterio definito dal governo). Un ulteriore 27% vive poco al di sopra della soglia di povertà.
A inasprire la situazione è la distribuzione etnica del fenomeno: il 30% delle donne in questione sono afro-americane e il 25% ispaniche; donne a volte discriminate professionalmente e svantaggiate nell’accesso all’istruzione. Ma il dato più drammatico è che i tre quarti delle donne intervistate sostengono che la causa dell’interruzione della gravidanza è economica: non possono “permettersi” di avere un figlio (il 61% ne ha già uno); non possono prendersi cura di un figlio perché interferirebbe con il lavoro, che rischierebbero anche di perdere; oppure, in quanto madri sole, hanno un’unica fonte di reddito che non posso permettersi di perdere. Il 40% delle donne che hanno rinunciato ad una gravidanza inattesa non è mai stata sposata e non coabita con il partner.
I numeri riportati nella ricerca sono altrettanto scoraggianti sotto il profilo dell’accessibilità all’interruzione di gravidanza: l’89% delle contee americane ha perduto almeno una clinica per aborti solo nel 2011 e il 38% delle donne vive proprio in quelle aree. Il costo di un aborto può variare: si parte da 451 dollari alla decima settimana di gestazione e senza ospedalizzazione.
L’indagine ricorda però che sempre più donne vi ricorrono in una fase più avanzata, per una serie di ragioni. Innanzitutto c’è la difficoltà nel trovare una struttura sanitaria adeguata che non sia troppo distante; poi c’è il fatto che sempre più stati impongono alle donne, nella speranza di far cambiare loro idea, di attendere giorni e giorni tra la prima visita di consultazione e l’intervento vero e proprio; infine solo l’11% delle cliniche private procede ad un aborto oltre la 24° settimana. Il 58% delle donne che hanno abortito, denuncia che il ritardo è stato dovuto agli adempimenti richiesti e alle difficoltà nell’assicurarsi le risorse economiche.
Tutti questi dati si scontrano con un dibattito politico che ha finito per concentrare l’attenzione non sul problema della povertà che induce a rinunciare ad un figlio, ma sull’impatto dei costi dell’aborto e della contraccezione sulla collettività.
Dopo la sentenza Roe vs. Wade, il governo aveva introdotto un contributo economico all’aborto per le donne povere (tramite l’assistenza sanitaria pubblica per i meno abbienti Medicaid). Contributo che fu ben presto rimosso dal Congresso attraverso il cosiddetto Hyde Amendment del 1976, anche se 15 stati lo tengono in vita tutt’oggi con i propri fondi. Successivamente, come dimostrato anche dalle recenti discussioni al Congresso sulla riforma sanitaria, il tema dell’aborto e del birth control si è incagliato il più delle volte proprio sul piano prettamente economico: la maggioranza conservatrice alla Camera, ad esempio, è riuscita a far passare a gennaio una misura (che probabilmente non supererà il vaglio del Senato) che rende illegale l’uso dei sussidi delle polizze sanitarie previsti da Obamacare per un’interruzione di gravidanza. Metà degli stati, inoltre, hanno già limitato per legge la copertura dell’aborto offerta sugli exchange, i mercati dove i cittadini possono acquistare le polizze con l’aiuto del governo. La questione insomma è ormai diventata un “argomento” da campagna elettorale.
Un’indagine dell’agosto 2013 del Washington Post-ABC mostra chiaramente le divisioni religiose sul tema: il 66% dei protestanti evangelici ritiene che l’aborto debba essere dichiarato illegale e 2/3 dell’elettorato bianco-non evangelico sostiene esattamente il contrario. Poco più della metà della popolazione (55%) crede che l’aborto debba essere legale in ogni caso e reclama una legge nazionale anziché un approccio “stato per stato”.
Nella pratica, però, soprattutto da quando le elezioni di midterm del 2010 hanno portato ad una grande affermazione dei candidati conservatori, c’è stata una proliferazione di interventi restrittivi da parte dei singoli stati. Nel solo 2013, 22 stati hanno introdotto 70 misure per limitare l’accesso all’aborto (se si guarda agli ultimi tre anni, questi numeri salgono a 33 stati e 200 norme). Ventiquattro stati lo hanno escluso dalla copertura assicurativa prevista dai nuovi exchange. In nove stati è vietata la copertura privata per la maggior parte degli aborti. Una decina di altri stati stanno inoltre introducendo il divieto di interruzione alla 20° settimana di gravidanza.
Sia il Partito repubblicano che quello democratico sono consapevoli del potenziale elettorale di questo tema e cercano di approfittarne. Nel 2008, Obama poté contare su un vantaggio del 14% nel voto femminile rispetto a John McCain, il 12% nello scontro con Mitt Romney del 2012. Anno durante il quale i Democratici spesero oltre un quarto dei 16 milioni di dollari per la campagna in Virginia in spot televisivi a proposito dell’aborto. Intanto da parte repubblicana, il senatore della Florida Marco Rubio, possibile candidato alle presidenziali del 2016, vorrebbe presentare in Senato una proposta simile a quelle che in 10 stati vietano l’aborto oltre la 20° settimana, sperando di intercettare il favore dei cattolici, anche Democratici.
Intanto, la Corte suprema tornerà a pronunciarsi sul tema a giugno: una delle più grandi catene di cartolerie americane, Hobby Lobby, ha intentato causa contro l’amministrazione Obama in base alla seguente tesi: la copertura sanitaria che, per legge, l’azienda deve ora offrire ai propri dipendenti includendovi anche l’acquisto di contraccettivi violerebbe le proprie convinzioni religiose. Anche altre 70 società stanno ricorrendo alle varie corti federali, con l’intento di arrivare alla Corte suprema. I massimi giudici americani dovranno inoltre decidere del caso di Eleanor McCullen, membro di Operation Rescue, organizzazione che raccoglie attivisti pro-life.
McCullen ha fatto causa contro l’ampliamento ad oltre 10 metri delle “zone cuscinetto”, imposto con una nuova legge dal suo stato, il Massachussetts, perché sostiene che violi il suo diritto a manifestare. Le cosiddette “zone cuscinetto” – buffer zone – segnano un perimetro fisico a tutela di chi lavora nelle cliniche per le interruzioni di gravidanza e delle donne che vi ricorrono. Sono già in vigore in 15 stati e da 14 anni, grazie ad una pronuncia della Corte suprema a favore di una legge dello stato del Colorado; se prima il limite imposto era poco oltre i 2 metri, la legge del Massachussetts contro cui è ricorsa Eleanor McCullen, estende il divieto a quasi 11 metri.
La battaglia politica sull’aborto, insomma, sta solo apparentemente riportando al centro del dibattito il diritto dell’individuo, ma in realtà sta ignorando il vero problema: quello della povertà. Problema che, ormai dimenticato, rischia di lasciare il posto solo a una guerra contro le donne.