Alle elezioni politiche ungheresi del 6 aprile scorso, il partito FiDeSz del presidente del Consiglio uscente Viktor Orbán ha ottenuto nuovamente, assieme all’alleato democristiano, la maggioranza di 2/3 dei seggi in parlamento (133 su 199). Alla variegata opposizione di centro-sinistra ne sono toccati 38, all’estrema destra di Jobbik 23 e agli ecologisti cinque. Il commento più interessante al risultato – “legal but not fair” – è venuto dalla costituzionalista Kim Lane Scheppele, che assieme al suo collega di Princeton, l’economista Paul Krugman, si è distinta negli ultimi tre-quattro anni come la voce critica più assidua nei confronti di Orbán e della sua politica.
Nato nel 1963, il riconfermato premier ebbe il suo battesimo del fuoco venticinque anni fa, quando pronunciò un discorso giudicato da tutti temerario durante il funerale di Imre Nagy. Quella celebrazione dei martiri del 1956 ungherese fu uno degli eventi chiave che portarono al crollo pacifico dei regimi comunisti in Europa: le parole di Orbán, che chiese né più né meno che il ritiro immediato delle truppe sovietiche, anticipavano quanto sarebbe accaduto due anni dopo, nel 1991, con lo scioglimento del Patto di Varsavia e della stessa URSS. Qualche anno dopo, tra il 1993 e il 1994, Orbán – che si definiva un liberale di sinistra – compì una svolta in senso conservatore, motivata da vari fattori tra cui la prematura scomparsa del primo capo del governo postcomunista Antall (che di fatto non lasciò successori di rilievo) e il forte sodalizio venutosi a creare con Silvio Berlusconi.
Dopo un primo mandato di governo nel 1998-2002, Orbán passò otto anni all’opposizione prima della schiacciante vittoria del 2010, dovuta principalmente a quello che il giornalista austriaco Paul Lendvai ha chiamato “il suicidio della sinistra”. Nel parlamento unicamerale e con un sistema elettorale misto alla tedesca, ottenere oltre il 50% dei voti espressi e quasi il 70% dei deputati è stato indubbiamente un exploit senza pari in Europa.
Da quella affermazione di quattro anni fa, nell’opinione pubblica internazionale si sono venute a creare due scuole di pensiero: una ha identificato nell’Ungheria “il cuore nero dell’Europa”, soprattutto dopo che la nuova costituzione, entrata in vigore all’inizio del 2012, ha dichiaratamente concluso in modo definitivo il periodo della transizione post comunista; l’altra, più indulgente, vede nella FiDeSz una forza tutto sommato rispettosa delle regole democratiche, anche se eccedente nel populismo e talvolta inappropriata nel linguaggio. La prima scuola tende spesso a confondere la FiDeSz con il partito di estrema destra Jobbik, mentre la seconda, capeggiata da Angela Merkel, cerca di esercitare un’influenza moderatrice soprattutto nel delicato ambito della libertà di stampa.
Se guardiamo all’assetto costituzionale, la Costituzione del 2012 (che sostituisce quella stalinista del 1949, a sua volta emendata in senso democratico nel 1989) se letta interamente e posta nel contesto legislativo più ampio non può essere veramente interpretata come liberticida. Spesso si è detto che fosse anti-abortista e anti-gay: in effetti contiene articoli che specificano che il matrimonio è fra un uomo e una donna (clausola assente nella costituzione italiana) e che la vita viene protetta fin dal concepimento, ma non risulta che gli omosessuali siano perseguitati o che le norme che regolano l’interruzione della gravidanza siano state toccate. Alcuni emendamenti successivi, invece, si sono prestati a critiche più incisive, come ad esempio la regolamentazione della libertà di stampa e la definizione dell’autonomia della Corte costituzionale. Sta di fatto però che nessuna delle numerose indagini commissionate o intraprese dagli organi competenti di Bruxelles e Strasburgo ha raggiunto conclusioni tali da poter definire l’Ungheria come un regime liberticida o che metta a repentaglio i diritti fondamentali.
Proprio in vista del rinnovo del Parlamento, avvenuto appunto il 6 aprile, è stata approvata una nuova legge elettorale che ha ridotto considerevolmente il numero dei parlamentari (da 386 a 199, con notevole risparmio per l’erario) e che ha ridisegnato i distretti elettorali in modo tale da avvantaggiare la FiDeSz, ossia in base ai risultati delle sei competizioni precedenti: nonostante il calo fisiologico di circa dieci punti in percentuale, la FiDeSz è riuscita ad assicurarsi la maggioranza di due terzi, cosa che può essere vista sia come negativa che come positiva, tenendo conto che l’unico partito cui rivolgersi per formare una coalizione sarebbe stato lo Jobbik. “Legal but not fair” è certamente una definizione che calza bene e che è stata nella sostanza espressa anche dalla missione dell’OSCE. Fino a che punto è però possibile definire “fair” una forza politica che ha ottenuto grazie a una legge quasi ritagliata su misura la maggioranza di due terzi? La risposta probabilmente verrà nel corso del prossimo quadriennio, durante il quale si capirà se Orbán prenderà la direzione imboccata dal bielorusso Lukashenka o se invece accetterà l’idea che un ricambio è necessario: nell’insieme, però, non si può neanche dimenticare che Helmut Kohl rimase al potere per 16 anni e, prima di lui, i Tories britannici per ben 18. Qui naturalmente entra in gioco la debolezza dell’opposizione, che è il vero motivo del trionfo della FiDeSz (e dei lunghissimi periodi passati al governo dai suoi corrispondenti tedesco e britannico): tra l’altro, Orbán e il suo gruppo dirigente conoscono a menadito le forze che a loro si oppongono, tanto nella versione post-comunista che in quella dell’ex dissidenza anticomunista, e quasi ne anticipano le mosse creando disorientamento e mancanza di una prospettiva realmente alternativa.
In politica estera, soprattutto in seguito alla crisi ucraina, Orbán ha in effetti seguito criteri che potrebbero dare adito ad una opposizione efficace: la sua dichiarazione più significativa è stata del tipo “a noi interessa solo la sorte della nostra minoranza”, in tal modo confermando in pieno i sospetti di una collusione con Putin. Qui sta tutta la portata della sfida per l’UE e l’Occidente in generale: se dovesse passare anche tra i suoi stessi Paesi membri l’idea che, tutto sommato, dopo l’annessione della Crimea alla Russia ognuno ha il diritto di prendersi il suo (in senso etnico e territoriale), le conseguenze sarebbero apocalittiche. In una cosa però la Russia ha ragione, ossia nell’identificare l’inizio del problema con l’indipendenza del Kosovo nel 2008. Se Washington e Bruxelles non troveranno al più presto le risposte convincenti e le mosse adatte a contrastare i fatti compiuti, a cominciare dalla situazione creatasi in Georgia nello stesso 2008, ma soprattutto ad evitare che le posizioni di Putin facciano breccia all’interno della NATO e dell’UE, si preparano tempi molto difficili.