international analysis and commentary

Lo sport, le Olimpiadi e le relazioni internazionali

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Che rapporto c’è tra sport e politica internazionale? Quale funzione possono mai avere giochi olimpici come quelli di Sochi per chi li ospita e chi vi partecipa? Perché gli stati investono così tanto, nell’organizzazione dell’evento sportivo così come nello sforzo di conquistare vittorie e medaglie?

Le risposte che la storia ci offre sono plurime. Innanzitutto, lo sport è stato, ed è, uno straordinario vettore con cui alimentare un inesauribile immaginario di potenza. Può servire a rafforzare quel prestigio internazionale cui ogni nazione ambisce. Può certificare la piena maturazione (o riacquisizione) di uno status di potenza che trova nella sfarzosa organizzazione dell’evento sportivo il suo sugello ed apogeo, come fu per la Cina nel 2008, come è oggi per la Russia putiniana e come sarà, presumibilmente, per il Brasile nel 2016. Può agire come surrogato di un potere, o anche di una semplice identità nazionale, che per varie ragioni difetta a un determinato soggetto statuale. Fu questo, ad esempio, il caso della Germania dell’Est, che riuscì grazie ai suoi controversi ma straordinari successi sportivi ad acquisire una visibilità funzionale al suo riconoscimento e alla sua stessa esistenza simbolica. Perché lo sport, e l’epopea sportiva, aiutano a costruire un campionario di immagini e miti indispensabili a inventare e rappresentare una comunità nazionale, a maggior ragione quando questa è fragile, incerta o contestata.  

In secondo luogo, la competizione sportiva è ambito prediletto di confronto e sfida tra sistemi e ideologie contrapposti: tra soggetti che ambiscono a rappresentare un modello per il resto del mondo; e che nel successo sportivo contano di trovare conferma della loro rivendicazione di superiorità o universalità. Una simile logica alimentò la feroce competizione sportiva tra Stati Uniti e Unione Sovietica durante gli anni della Guerra Fredda (e, in parte, quella tra Cina e Stati Uniti oggi). Di ciò erano peraltro ben consapevoli le due parti, che nella guerra fredda dello sport investirono risorse, impegno ed aspettative. Nel 1951, una dichiarazione sullo sport del Partito comunista sovietico affermava che ogni vittoria sportiva costituisse “prova della inconfutabile superiorità della cultura socialista su quella decadente degli stati capitalisti”. Qualche anno più tardi, Bob Kennedy, preoccupato dei successi sovietici, sostenne che fosse nell’interesse degli Stati Uniti “riacquisire la superiorità olimpica, in modo da dare al mondo una prova tangibile della loro forza e vitalità”. Nel 1974, il presidente Gerald Ford chiese retoricamente se gli americani comprendessero quanto fosse importante “competere vittoriosamente con altre nazioni”, sostenendo che “un successo sportivo  può sollevare lo spirito di una nazione quanto una vittoria su un campo di battaglia”. Reagan celebrò a modo suo l’inattesa conquista della medaglia d’oro da parte della nazionale statunitense di hockey su ghiaccio alle Olimpiadi di Lake Placid del 1980, l’unica volta nelle otto edizioni in cui fu rappresentata l’URSS (1964-1992) in cui i maestri sovietici/russi non primeggiarono: “Possiamo dimenticare l’orgoglio che ha attraversato questo paese quando la nostra squadra di hockey ha sconfitto i russi?” – chiese il neoeletto presidente americano – “l’immagine di quei ragazzi dopo la vittoria sul ghiaccio con la bandiera del loro paese tra le mani è un tesoro nazionale”.

Un terzo e ultimo elemento è costituito dalla capacità dello sport di offrire un medium diplomatico: uno strumento a basso costo per ottenere determinati obiettivi politici, siano essi l’apertura di comunicazioni tra due stati, la punizione di un determinato comportamento o il superamento di una situazione di tensione. La celebre “diplomazia del ping pong” – la decisione della Cina comunista d’invitare nel 1971 la squadra nazionale statunitese di tennis tavolo – servì a Pechino per accelerare il processo di apertura agli Stati Uniti. Nella seconda metà degli anni Ottanta, i Goodwill Games di Mosca (1986) e Seattle (1990) sugellarono la nuova, definitiva distensione tra USA e URSS, chiudendo l’epoca dei reciproci boicottaggi dei giochi di Mosca (1980) e Los Angeles (1984). Boicottaggi punitivi che hanno peraltro una lunga tradizione nei giochi olimpici, almeno fino a quando la piena “commercializzazione” delle Olimpiadi non li ha resi obsoleti e impraticabili. Ai giochi di Melbourne del 1956 diversi paesi non parteciparono per protesta contro la repressione di Budapest o l’intervento a Suez; alle Olimpiadi di Montreal del 1976 quasi tutti gli stati africani decisero di non mandare loro atleti per protesta contro la partecipazione della Nuova Zelanda, la cui squadra di rugby aveva svolto una tournée nel Sud Africa dell’apartheid che era stato espulso nel 1964 dal Comitato Olimpico Internazionale.

Molti di questi elementi, che qualificano e informano il complesso rapporto tra sport e politica internazionale, sono oggi ben visibili nei giochi di Sochi. Giochi che sono serviti a Putin per flettere i muscoli, mostrare al mondo la rinnovata potenza russa, alimentare uno scoperto orgoglio patriottico funzionale in larga misura alla costruzione del consenso interno. E giochi dove la combinazione tra l’entusiasmo generato dal momento sportivo – rituale che ha acquisito nel tempo una valenza quasi religiosa – e l’interesse commerciale ha rivelato una volta ancora la capacità di silenziare polemiche e dissensi: accesi nelle settimane precedenti l’apertura dei giochi e quasi muti durante il loro svolgimento. Questo non perché il momento olimpico rappresenti una sospensione della politica, come vorrebbe la tradizione di de Coubertin, ma piuttosto un’affermazione piena della intrinseca, ineluttabile politicità dello sport contemporaneo.