Nell’autunno del 2014, come ogni due anni, si terranno negli USA le cosiddette elezioni di midterm. I cittadini saranno chiamati a eleggere i 435 membri della Camera dei Rappresentanti e 35 dei 100 membri del Senato. Sceglieranno inoltre i governatori di alcuni stati e la composizione di diverse assemblee legislative statali.
Ricordiamo la meccanica del voto: i membri della Camera dei Rappresentanti sono distribuiti proporzionalmente in base alla popolazione dei singoli stati per come questa viene definita nei censimenti decennali (l’ultimo è stato quello del 2010) ed eletti in collegi definiti dalle assemblee legislative statali o da apposite commissioni. I senatori sono due per ogni stato, a prescindere dalle dimensioni dello stesso: la California, lo stato più popolato dell’Unione, elegge oggi 53 deputati, ma solamente due senatori come quei sette stati – Alaska, Delaware, Montana, North Dakota, South Dakota, Vermont e Wyoming – che di deputati ne possono invece eleggere uno solo.
Soltanto con il diciassettesimo emendamento costituzionale, ratificato nel 1913, si è passati all’elezione diretta del Senato. Originariamente, i senatori erano scelti dalle assemblee legislative statali. L’obiettivo dei padri costituenti era infatti triplice: creare un bicameralismo equilibrato nel quale le diverse modalità di selezione di senatori e deputati avrebbero consentito ai primi di bilanciare una camera bassa potenzialmente in balia di irrazionali pulsioni popolari; offrire agli stati un contrappeso al potere del nuovo governo federale; e creare una camera alta dalla composizione più stabile (il mandato di sei anni) e, appunto, selezionata.
Il partito del presidente è in genere penalizzato nelle elezioni di midterm. Interpretate spesso come un referendum sull’operato dell’amministrazione, le elezioni di metà mandato hanno storicamente visto i presidenti perdere seggi in almeno uno dei due rami del Congresso. Dal secondo dopoguerra, soltanto due presidenti hanno avuto risultati di segno diverso: Bill Clinton nel 1998, quando i Democratici guadagnarono cinque seggi alla Camera e rimasero stabili al Senato; e George W. Bush nel 2002, sulla cui vittoria pesò però in modo decisivo l’impatto dell’11 settembre, che vide l’elettorato americano stringersi attorno al proprio comandante in capo.
Non esiste però una correlazione diretta tra i risultati di midterm e il successo politico del presidente in carica, o del suo partito, nelle elezioni successive. Ronald Reagan venne trionfalmente rieletto nel 1984 nonostante la sconfitta di due anni prima e Bill Clinton, dopo un risultato drammatico nel ‘94, riconquistò la Casa Bianca per concludere i suoi due mandati con tassi di consenso e popolarità molto elevati.
Qual è dunque la rilevanza delle elezioni di medio termine e cosa ci dicono rispetto alla presidenza Obama? L’importanza di questo momento elettorale si lega alla governabilità del paese in cui tre istituzioni separate co-partecipano al processo legislativo, ma vengono elette in tempi diversi e sulla base di collegi elettorali differenti.
Un governo diviso, in cui il partito del presidente non ha il controllo di una o di entrambe le Camere, è un governo imbrigliato, con uno spazio di manovra limitato e condizionato dalla disponibilità al compromesso della controparte. Laddove quest’ultima si rivela scarsa, come è stato nell’ultimo quadriennio, il rischio che ne consegue è quello di una paralisi del sistema politico e istituzionale.
Con la sconfitta del 2010, il Partito democratico ha perso il controllo della Camera dei Rappresentanti. Divisi, indisciplinati e in una certa misura deresponsabilizzati dalla straordinaria vittoria del 2008, i Democratici hanno consegnato uno dei due rami legislativi ad un Partito repubblicano che si è mostrato vieppiù indisponibile a qualsivoglia compromesso. Un processo difficilmente arginabile di polarizzazione dei due campi ha esasperato il ricorso a pratiche di ostruzionismo. La leadership di Obama, fondata sull’incessante ricerca della collaborazione bipartisan, si è rivelata talvolta incoerente, inadeguata nel gestire l’estremizzazione del quadro politico e in ultimo incapace di sbloccare lo stallo decisionale. Lo shutdown dell’ottobre 2013 ha mostrato emblematicamente la disfunzionalità del sistema in un contesto di governo diviso e di polarizzazione partitica. In assenza di un compromesso sulla legge di bilancio, il governo degli Stati Uniti ha dovuto sospendere temporaneamente l’erogazione di una serie di servizi e congedare, senza retribuzione, quasi un milione di dipendenti federali.
Sull’indisponibilità al compromesso pesano diversi fattori, a partire dalla progressiva radicalizzazione di un Partito repubblicano sovente ostaggio di una minoranza – quella della destra del Tea Party – che non supera il 30% della rappresentanza repubblicana complessiva alla Camera, ma è capace di paralizzare qualsiasi iter legislativo. Pesano altresì i meccanismi elettorali e la pratica di ridisegnare i collegi, nota come gerrymandering o redistricting, per creare enclavi elettorali sicure e inattaccabili. Meccanismo, questo, che porta a disegnare collegi spesso geograficamente incoerenti pur di minimizzare la competitività della controparte. Sebbene i Democratici non siano estranei a questa pratica, sono i Repubblicani ad averne fatto un uso senza precedenti negli ultimi anni.
Subito dopo la sua rielezione, Obama ha indicato come obiettivo prioritario quello di riportare il Congresso in mano democratica: condizione fondamentale per poter promuovere un pacchetto di riforme sul controllo delle armi, il cambiamento climatico, l’immigrazione. Temi, questi, che vedono il Partito repubblicano, e la sua minoranza più radicale, su posizioni di forte ostruzionismo. Il lascito di Obama dipenderà in larga misura dalla sua capacità di sbloccare questa impasse al Congresso e far approvare almeno alcuni di questi provvedimenti.
È difficile prevedere l’esito delle elezioni di midterm. Al momento, tuttavia, un radicale rovesciamento degli equilibri appare improbabile per tre ragioni. La prima: i precedenti storici. Dal secondo dopoguerra, nessun presidente – fatta eccezione per Clinton – ha vinto le elezioni di midterm durante il secondo mandato. I numeri, per Obama, sono impietosi: dovrebbe infatti guadagnare il triplo dei seggi che furono sufficienti a Clinton, il cui tasso di apprezzamento era peraltro di 14 punti superiore rispetto a quello di cui gode attualmente il presidente in carica. La seconda ragione: la partecipazione particolarmente bassa alle elezioni di medio termine (mai superiore al 40% dal 1970 a oggi) non favorisce il presidente. Sono soprattutto i giovani e le minoranze a non recarsi alle urne per le votazioni di metà mandato erodendo così una delle basi più importanti del sostegno democratico. La terza, e forse più significativa ragione per prevedere un sostanziale continuità: i seggi davvero in palio sono stati drasticamente ridotti dal processo di redistricting: non più di 40/50, secondo stime degli stessi Democratici, che molti esperti considerano peraltro fin troppo ottimistiche.
Su questo sfondo, Obama sta mobilitando massicce risorse finanziare e strumenti mediatici per sostenere i candidati democratici al Congresso. Lo fa insistendo sull’impossibilità di dialogare con la controparte e dunque di governare. E lo fa cercando di sfruttare l’estremo malcontento popolare nei confronti di un Congresso che soffre oggi di tassi di consenso bassissimi (secondo Gallup, solo il 10% degli americani ne giudica positivamente l’operato, la percentuale più bassa da quando, 39 anni fa, fu introdotto questo sondaggio). Gli avversari, divisi e in difficoltà davanti all’opinione pubblica per la gestione degli accordi relativi al bilancio, lo accusano di voler “annichilire” il Partito repubblicano, cioè di totale incoerenza per un presidente che pretende di fare della collaborazione bipartisan il suo tratto distintivo. Quale sarà l’esito di questa campagna dipenderà in parte dai successi del presidente su vari dossier, in parte dall’evoluzione della strategia repubblicana. Soprattutto, dipenderà dalla capacità di Obama e dei Democratici di trasformare le elezioni in un referendum sul Tea Party e non, come fu nel 2010, sul presidente e i suoi insuccessi.