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Cina e UE: il caso del fotovoltaico e la realtà dell’interdipendenza

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Tra fine 2012 e luglio 2013 si è registrato un picco di tensione nelle relazioni commerciali fra Unione Europea e Cina. Da un lato, l’apertura di un’indagine per dumping e la conseguente introduzione di dazi da parte dell’UE sui pannelli solari di produzione cinese; dall’altro, le quattro investigazioni lanciate nel giro di poche settimane da Pechino contro gruppi europei operanti in diversi settori. Tali gravi frizioni, infine risolte ai primi di agosto con l’accordo su un prezzo minimo per i pannelli cinesi importati nell’UE, hanno messo in mostra le nuove dinamiche che caratterizzano le odierne relazioni fra i due blocchi.

Le tensioni commerciali risalgono circa a un anno fa: nel settembre 2012 la Commissione europea, a seguito di una denuncia presentata da un gruppo di produttori di pannelli fotovoltaici europei, aprì un’indagine per dumping verso i produttori cinesi, seguita due mesi dopo da un’altra per concorrenza sleale dovuta all’uso di sussidi pubblici. Di conseguenza, e nonostante il parere consultivo negativo dato dal Comitato Anti-Dumping del maggio 2013 (18 paesi contro, quattro astenuti e cinque a favore) circa l’introduzione di dazi preliminari (temporanei) in risposta al dumping cinese, il Commissario al commercio Karel De Gucht decise di introdurre barriere tariffarie molto alte, di un valore variabile fra il 37% ed il 68% del costo del prodotto. Sebbene il Commissario dichiarasse “totale” disponibilità a trovare una amichevole soluzione con il governo cinese, la sua decisione generò una forte reazione.

Poco tempo dopo il governo cinese avviò infatti lo stesso tipo di indagini verso svariati produttori europei, come ad esempio aziende vinicole o chimiche. L’obiettivo era quello di fare pressione sulle capitali europee, perché modificassero la decisione della Commissione: non pochi capi di governo avevano infatti mostrato il loro fermo disappunto nel corso di giugno e luglio per l’iniziativa di De Gucht, e assicurato un ulteriore parere contrario quando a dicembre il Consiglio avrebbe votato, stavolta con valore vincolante, sull’introduzione di dazi definitivi.

La legislazione europea in materia prevede una prima fase nella quale la Commissione, nel caso rilevi pratiche sleali (dumping, aiuti di stato) nel commercio con un paese terzo, può istituire dazi preliminari e subito dopo tempo aprire negoziati con il paese in questione. Tali negoziati possono durare non oltre sei mesi: in caso di mancato accordo, la Commissione può proporre dazi definitivi. Questi devono tuttavia essere approvati a maggioranza dal Consiglio europeo (quindi dagli stati membri dell’UE).

Le stesse caratteristiche del settore fotovoltaico, e alcune cifre, mostrano come in realtà l’introduzione di dazi non favorisse assolutamente l’industria europea del solare nel suo complesso. L’industria fotovoltaica si articola in sei segmenti: materiali, macchinari per la produzione di componenti per pannelli, produzione di componenti per pannelli, assemblaggio, installazione di pannelli, manutenzione. In cinque di questi segmenti l’UE aveva ed ha ancora la leadership mondiale, e solo la produzione di componenti per pannelli, attività che richiede manodopera non specializzata, vede la Cina davanti all’Europa.

La supremazia cinese in questo segmento di produzione è dovuta alle delocalizzazioni compiute verso i paesi con basso costo del lavoro da parte dei produttori di pannelli. Le aziende che hanno delocalizzato in Cina hanno poi effettuato importanti investimenti in nuovi macchinari, per lo più prodotti in Occidente, in grado di generare maggiori economie di scala e ridurre il costo di produzione del pannello, rendendo definitivamente più conveniente la fabbricazione in Asia. Questa situazione è peraltro comune a molti altri settori industriali che hanno visto la delocalizzazione delle fasi di produzione a bassa intensità di capitale verso le low labor cost regions, mentre quelle ad alto valore aggiunto sono rimaste in Occidente.

Sulla base delle stime più prudenti, il fotovoltaico genera in Europa un giro d’affari di oltre 21 miliardi di euro, dando lavoro a oltre 180 mila addetti. Il segmento della produzione di componenti per pannelli, dominante in Cina, rappresenta in Europa una parte minoritaria – coinvolge infatti circa otto mila addetti (meno del 5% del totale del settore) e genera meno di un miliardo di fatturato (circa il 4%). I dazi, dunque, sarebbero andati a proteggere un segmento molto minoritario della produzione fotovoltaica europea. Inoltre, alcuni studi stimavano che un dazio del 25% avrebbe causato un crollo della domanda di nuovi pannelli di oltre sei gigawatt (GW) di capacità, e messo a repentaglio almeno 135 mila posti di lavoro in Europa (distribuiti nei sei diversi segmenti dell’industria).

Allo stesso tempo, è importante sottolineare come il fotovoltaico sia un’industria considerata strategica da Pechino, che vede in essa una possibilità per soddisfare sia la domanda di lavoro sia la sempre crescente domanda energetica. Per questa ragione la risposta alla mossa della Commissione europea è stata ferma. Molti gruppi industriali europei temevano inoltre che il governo cinese introducesse dei dazi sui loro prodotti come forma di rivalsa. Oltre ai viticoltori e alle industrie chimiche, anche le case automobilistiche, che considerano la Cina un mercato con un elevatissimo potenziale, erano non poco preoccupate dalla situazione. Per questi due ordini di ragioni – la scarsa convenienza e la paura delle ritorsioni – i paesi europei, precedentemente favorevoli all’introduzione di dazi, hanno finito per ritrovarsi in maggioranza contrari.

La vicenda dimostra una insufficiente attenzione all’interdipendenza commerciale delle diverse regioni del mondo da parte dei policy maker di Bruxelles. Troppo spesso, infatti, i dazi o altre misure protettive di carattere simile si rivelano in effetti nocive per la stragrande maggioranza delle imprese continentali, e utili solo a qualche settore minoritario rispetto al complesso dell’industria europea.

Le tensioni commerciali con la Cina sono cadute oltretutto in un momento cruciale: la nuova leadership cinese sta cercando di irrobustire la domanda interna – obiettivo che viene considerato decisivo per la stessa stabilità complessiva del paese. Senza un tale rafforzamento, l’obiettivo del 9% di crescita annuo non sarebbe raggiunto, a causa della recessione mondiale – c’è poi la lieve ripresa delle economie occidentali, che hanno però diminuito sensibilmente il loro import dalla Cina. Ovviamente, lo sviluppo cinese rappresenta un’opportunità non da poco per le imprese europee, che sfruttandone il traino potrebbero rilanciare le loro produzioni e generare maggiori profitti da investire in nuovi macchinari o nuovi posti di lavoro.

È proprio questa l’essenza delle economie interdipendenti. Da un lato la Cina ha bisogno del mercato europeo per il suo export a basso (sebbene crescente) valore aggiunto; dall’altro l’UE vede nella Cina un mercato dalle eccezionali capacità di crescita. Le esperienze protezionistiche passate avrebbero dovuto suggerire da subito che ben raramente l’introduzione di dazi porta benefici in un sistema multilaterale come quello in cui si opera oggi.

La legislazione WTO e la garanzia che tutti i player rispettino le medesime misure e standard è condizione essenziale affinché l’economia internazionale funzioni. Tuttavia, perfino nel caso di mancato rispetto delle regole, l’introduzione unilaterale di dazi è ormai da ritenere una soluzione di ultima istanza, valida solo in mancanza di alternative e di fronte al fallimento di ogni possibile soluzione negoziale.