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L’onda euroscettica sotto i colpi della crisi: dalla periferia al nucleo

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Un fantasma si aggira per l’Europa, quello dell’euroscetticismo? La domanda è legittima, perché i segnali di malcontento sono molti. Laddove le proteste sono più forti, come nella “periferia” rappresentata da Portogallo, Spagna e Grecia, chi manifesta contro le politiche governative adottate per uscire dalla crisi lo fa spesso prendendosela con “i diktat di Bruxelles”. O con quella troika formata, per due componenti su tre, dalle istituzioni continentali che più di altre rappresentano l’Unione Europea come soggetto autonomo (e non come somma di Stati): la Commissione e la Banca Centrale Europea. L’UE ha smesso di essere, per larghi settori di quei paesi, sinonimo di benessere ed opportunità, trasformandosi nell’inafferrabile dispensatore di austerità a dosi ritenute insopportabili.

Fortunatamente, anche nella periferia europea più colpita dalla crisi continuano a prevalere le posizioni di coloro che sanno distinguere tra il progetto europeo nella sua portata storica e le scelte politiche contingenti, tra l’UE in sé e chi ne guida, in questa fase, gli organi di governo. Inoltre, fra quanti criticano l’attuale indirizzo politico delle istituzioni europee, sono una minoranza quelli che assolvono dalle responsabilità della crisi le proprie classi dirigenti nazionali: nell’autocritica sono generalmente coinvolti settori e soggetti interni alle proprie società. Emblematiche sono, da questo punto di vista, voci come quelle del principale quotidiano spagnolo, El País, che rappresenta l’opinione pubblica iberica progressista, e il partito della sinistra radicale greca Syriza, che, com’è noto, è in forte ascesa.

Ciononostante, appare evidente come, nella periferia, lo spazio per conciliare la critica alle politiche dell’UE e la difesa della sua legittimità rischi di ridursi sensibilmente con il trascorrere del tempo, se le popolazioni non riusciranno ad avvertire un miglioramento delle proprie condizioni. Un destino che, a ben guardare, riguarda non solo i paesi “deboli”, ma anche il cuore dell’Europa. Anche in Germania e in Francia, infatti, in modo diverso è viva la tensione fra la critica delle singole scelte politico-economiche delle istituzioni comunitarie e la negazione della legittimità stessa dell’UE. Nonostante l’euroscetticismo sia ancora sotto i livelli di guardia, non si può dare per scontato che, nel centro del continente, esista un’eterna ed inesauribile riserva di consenso filo-europeo.

Sulle due sponde del Reno, come si sa, storicamente la costruzione dell’edificio europeo non è stata vissuta allo stesso modo: approccio intergovernativo quello francese, spinte verso la dimensione comunitaria e sovranazionale da parte tedesca. Maggiore attenzione verso la tutela delle sovranità nazionali nel primo caso, e invece più slancio verso nuove forme di sovranità condivisa nell’altro. Nonostante le differenze, però, le classi dirigenti dell’Esagono e della Repubblica federale, sia di (centro)destra che di sinistra, si sono sempre spese a favore del processo di integrazione, a differenza dello storico “partner-avversario” britannico. L’impegno pro-europeo ha sempre potuto contare su opinioni pubbliche che, fatte salve le differenze, non hanno mai osteggiato il progetto di integrazione continentale. Il rischio che corrono ora Francia e Germania è che un’ostilità di tal genere possa invece, sulla base di esperienze diverse, crescere.

Nel caso francese, l’assenza di tangibili risultati nella politica economico-sociale del presidente socialista François Hollande potrebbe tradursi in una sorta di risentimento anti-europeo: l’UE (a egemonia tedesca) rischia di essere vista come quel fattore “esterno” che impedisce il pieno utilizzo delle prerogative che uno Stato sovrano ha per farsi carico dei problemi che vivono i propri cittadini. A soffiare sul fuoco di questo malcontento sono già la destra del Front National e la sinistra più radicale unita nel Front de Gauche, assai critiche non da oggi – con le dovute fondamentali distinzioni – sull’unificazione europea. E anche all’interno del Partito Socialista (PS) potrebbero riemergere quelle differenze che risalgono almeno al referendum sulla costituzione europea del 2005, che vide l’attuale ministro degli Esteri Laurent Fabius schierarsi per il no al trattato: recenti dichiarazioni del ministro “protezionista” Arnaud Montebourg, che ha lamentato le “pressioni dell’UE sui governi democraticamente eletti”, evidenziano turbolenze nei rapporti di una parte del PS con Bruxelles.

È concreta la possibilità che le prossime elezioni europee della primavera 2014 si trasformino in una manifestazione di sfiducia nei confronti di Hollande, e cioè soprattutto della mancata rinegoziazione del fiscal compact e dell’intera governance economica europea. Gli euroscettici di destra, dal FN a formazioni minori come il tradizionalista Mouvement pour la France dell’eurodeputato vandeano Philippe De Villiers o Debout la République del deputato gollista dissidente Nicolas Dupont-Aignan, non si lasceranno sfuggire l’occasione di mettere in relazione la perdita di sovranità con la crisi economica. Rispetto al rifiuto dell’Europa per ragioni di puro e semplice nazionalismo, questo tipo di euroscetticismo ha indubbiamente più frecce (e più pericolose) al proprio arco.

Anche la sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon insiste, pur con accenti diversi, sullo stesso nesso sovranità-crisi economica, aggiungendovi però la necessità che tutti i popoli colpiti dall’austerità si uniscano nella stessa lotta contro l’indirizzo sin qui prevalente della Commissione e del Consiglio europeo. Una sorta di “neo-sovranismo internazionalista”, per così dire, potrebbe trovare ascolto nell’elettorato che alle presidenziali premiò Hollande. In questo quadro, i gollisti dell’UMP si candidano a tornare primo partito e guadagnare una posizione utile nel cammino della reconquête alla quale stanno già lavorando, nonostante pesi su di loro lo stigma di un’eccessiva (e storicamente paradossale) germanofilia, retaggio dell’epoca non lontana della diarchia (a trazione tedesca) Merkozy.

In Germania, il sentimento esplicitamente euroscettico trova ancora scarsa espressione nel sistema politico. Non c’è nulla di paragonabile al Front National, mentre la sinistra della Linke è lontana da pulsioni nazionalistiche di qualunque sorta, anche solo in forma di souveranisme. Ciononostante, la nascita del partito anti-euro Alternative für Deutschland è un segnale da non sottovalutare, così come il dibattito nella sinistra radicale sull’uscita dalla moneta unica inaugurato da Oskar Lafontaine. Fra i democristiani, le voci critiche sono isolate, anche se rumorose, come quelle del deputato bavarese Peter Gauweiler, uno dei promotori del ricorso alla Corte costituzionale contro il Meccanismo europeo di Stabilità e il piano di acquisti dei titoli di debito da parte della BCE.

Più che di euroscetticismo in senso proprio, nel caso tedesco si può parlare di una sorta di “euro-raffreddamento”, tanto nell’opinione pubblica quanto nelle classi dirigenti. Qualcosa di meno minaccioso per l’UE di quanto si muova invece in Francia, ma in grado di conoscere evoluzioni ulteriori. Il “programma di governo 2013-2017” della CDU\CSU rappresenta in maniera emblematica tale posizione. Per l’UE la Germania non è disposta a far pagare troppo i propri contribuenti: Keine Leistung ohne Gegenleistung, ossia “nessuna prestazione senza controprestazione”, recita il documento. E quindi, no agli eurobond e altre forme di condivisione del debito con i paesi ritenuti spendaccioni, perché, se venissero adottati, il rischio sarebbe quello di perdonare (e dunque tollerare) i comportamenti non virtuosi.

Visti gli indici di gradimento della Cancelliera Merkel, la maggioranza dei tedeschi sembra indiscutibilmente condividere questo punto di vista: l’UE va bene, ma non – quasi letteralmente – a qualunque prezzo. Una crisi di legittimità non è poi così lontana.