La vittoria dell’esponente clericale moderato Hassan Rohani è stata una parziale sorpresa. Le undicesime elezioni presidenziali della Repubblica islamica si sono concluse all’insegna di un misto di stupore e cauto ottimismo, segnando ufficialmente la fine del secondo e ultimo mandato di Mahmoud Ahmadinejad. Ottenendo il 50.7% delle preferenze e la maggioranza assoluta, Rohani si è affermato al primo turno, evitando quella che molti presagivano essere una vittoria ben più incerta, da decidersi solo al secondo turno tra i due candidati con il maggior numero di voti.
Rohani, per lo più sconosciuto alla popolazione iraniana, godeva di uno scarso bacino elettorale, ma a pochi giorni dal termine della campagna per la presidenza le sue possibilità di vittoria sono drasticamente aumentate. Il ritiro dalla corsa elettorale di Mohammad Reza Aref, l’unico riformista che aveva superato con successo il vaglio dei dodici membri del Consiglio dei Guardiani, ed il sostegno ufficiale di figure prominenti quali l’ex presidente Mohammad Khatami e l’attuale capo del Consiglio per il Discernimento Hashemi Rafsanjani, hanno generato un risultato inaspettato. La capacità del fronte riformista di compattarsi e concorrere con un unico candidato ha permesso di incanalare i voti verso l’unica figura relativamente moderata tra i sei candidati alla presidenza, ed ha limitato in maniera significativa sia la dispersione dei voti sia il boicottaggio delle elezioni, auspicato da una larga parte dell’elettorato in segno di protesta nei confronti della repressione dei leader e dei sostenitori del Movimento Verde.
Il fronte dei “Principalisti”, che godeva del sostegno del Leader supremo, ha invece chiaramente fallito nel presentare una strategia altrettanto calcolata e vincente, rivelando le fratture interne allo schieramento. Anche a seguito del ritiro dalla corsa di Qolam-Ali Haddad Adel, consuocero di Khamenei ed ex presidente del parlamento, e contrariamente agli accordi presi nella fase iniziale della campagna elettorale, i tre principalisti (Ali Akbar Velayati, uno dei consiglieri di Khamenei in questioni di politica estera, il sindaco di Teheran Mohammad Baqer Qalibaf, e l’attuale capo negoziatore nucleare Saeed Jalili) hanno concorso individualmente, uno contro l’altro. Ciò ha indebolito il fronte e ne ha disperso i voti, contribuendo all’ampio margine di vantaggio con cui Rohani si è affermato rispetto agli altri candidati. Il neoeletto presidente ha infatti ottenuto il triplo dei voti rispetto al principale rivale conservatore, Qalibaf, mentre Jalili, considerato da molti il favorito alla carica presidenziale, è risultato terzo con solo l’11% dei voti.
All’indomani delle elezioni, molti si domandano se Rohani sarà effettivamente in grado di avanzare una politica tale da soddisfare la propensione al cambiamento espressa dalla popolazione iraniana e da mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale.
Lo slogan di Rohani, in favore di un governo di “speranza e prudenza”, presagisce in parte quale sarà l’orientamento della sua amministrazione. Avendo gestito per sedici anni il Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale (istituzione chiave nell’indirizzare le questioni di sicurezza nazionale), ed essendo stato capo negoziatore nucleare tra il 2003 ed il 2005 (posizione da cui si è dimesso a seguito dell’elezione di Ahmadinejad), è evidente che Rohani gode della fiducia della Guida suprema, Ali Khamenei. Egli non rappresenta dunque una minaccia per la leadership di regime o l’establishment clericale, come comprovato dal fatto stesso di essere stato uno degli otto candidati risultati idonei alla selezione del Consiglio dei Guardiani. Il suo programma non sfida lo status quo, e non promette cambiamenti alla stregua di quelli avanzati da Khatami durante la sua presidenza riformista nel 1997. Tuttavia Rohani si è fatto promotore di una linea programmatica indirizzata a ricondurre l’Iran verso la moderazione e lontano dagli estremismi, ed orientata alla ripresa economica del paese anche tramite la riduzione del suo isolamento sul piano internazionale.
Si è inoltre fatto portavoce della necessità di tutelare maggiormente le libertà civili nel paese, difendendo la libertà di stampa e di espressione. Ha menzionato in modo esplicito la necessità di diminuire il livello di repressione contro le forze politiche che esprimano critiche nei confronti dell’establishment tramite la scarcerazione dei prigionieri politici, tra cui i due leader del Movimento Verde Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi (agli arresti domiciliari da più di due anni).
Il cauto ottimismo sulle possibilità che Rohani riesca a portare avanti questa linea programmatica è basato sul fatto che, essendo parte integrante dell’establishment e una voce centrista nel sistema, la sua presidenza potrebbe ottenere il beneplacito della Guida suprema nell’introdurre qualche parziale alternativa moderata nella gestione di importanti questioni sia di politica estera che interna. Ad oggi, la Repubblica islamica e Khamenei escono di fatto rafforzati da queste elezioni presidenziali: l’affluenza alle urne del 72 percento degli aventi diritto, di gran lunga superiore alle previsioni, ha ripristinato almeno parte della legittimità che il regime aveva perduto a seguito delle dimostrazioni di massa del 2009. La strategia del fronte riformista (sempre nell’accezione del termine che resta nell’ambito dell’establishment) nel presentare un unico candidato e nel promuovere una forte affluenza alle urne, ha evitato l’eventualità di un’alta astensione, rischio alimentato dal ristretto spettro politico di appartenenza dei candidati. La percezione sia all’estero che in Iran di una corretta gestione della competizione, se non altro all’indomani dello scrutinio dei candidati da parte del Consiglio dei Guardiani, è stata rinvigorita dall’estensione nell’orario di apertura dei seggi e dall’efficienza nel conteggio dei voti, ben diversa da quanto avvenuto quattro anni fa.
A rafforzare Khamenei contribuisce anche la figura stessa di Rohani, un clericale moderato che rappresenta e tutela gli interessi nazionali della leadership iraniana e che, tramite un governo di coalizione nazionale composto da esponenti moderati sia riformisti che conservatori, punterà principalmente a superare la crisi economica e politica che il paese ha dovuto affrontare durante l’amministrazione di Ahmadinejad.