La guerra del Mali rappresenta un punto di svolta per gli equilibri regionali. Costituisce inoltre la cartina di tornasole per valutare gli orientamenti strategici della Francia di Hollande sulle questioni africane.
In termini regionali, il conflitto maliano rafforza il Ciad di Idriss Déby Itno. Proprio la partecipazione del Ciad al conflitto a fianco di Parigi ha permesso all’operazione Serval di assicurarsi una chiara supremazia militare come dimostra il contributo decisivo delle truppe ciadiane nell’offensiva ancora in corso nell’altopiano dell’Adrar de Tigharghar.
Con 2500 uomini, il Ciad costituisce infatti il secondo contingente nazionale impegnato in Mali. Gli uomini dell’esercito spesso provengono dal corpo d’élite della guardia presidenziale. Si tratta di elementi ad alto valore aggiunto nei conflitti nel deserto, i cui ufficiali sono stati formati dai francesi durante il conflitto che ha opposto il Ciad alla Libia negli anni Ottanta. Provenienti soprattutto dalle etnie Gorane e Zaghawa, legate al presidente Déby da un legame di fiducia, i corpi di élite ciadiani costituiscono una forza mobile, i cui interventi sono decisivi nell’orientare gli equilibri regionali.
Il rafforzamento del Ciad non è importante solo a livello militare ma potrebbe indicare un cambiamento più profondo, cioè un riflesso della nuova stagione di regressione democratica che si è affermata negli ultimi anni in Africa sub sahariana. A partire dall’inizio del 2011 è stata evocata la possibilità che una primavera democratica potesse prendere forma anche in questa regione. La riconferma del Premio Nobel Johnson Sirleaf alla presidenza della Liberia e i fermenti democratici senegalesi sembravano confermare questa intuizione. Nello stesso Mali, importanti e pluralistiche elezioni presidenziali avrebbero dovuto organizzarsi nella primavera del 2012.
Di fronte a queste speranze democratiche, il Ciad incarnava, agli occhi delle opinioni pubbliche africane, un contro-modello politico: il regime di Idriss Déby, saldamente al governo dal 1990, si configura infatti come un esempio di autoritarismo. Nell’indice 2011 sulle democrazie pubblicato dall’Economist Intelligence Unit, il Ciad risultava come il secondo paese meno democratico al mondo, sopravanzato solo dalla Corea del Nord. Si tratta ovviamente di indicatori da interpretare con prudenza che riflettono comunque il discredito internazionale del regime di Déby.
Il conflitto dell’Azawad rilancia tuttavia il ruolo del Ciad, inserendosi in un quadro di destrutturazione regionale. Il lento declino del presidente centrafricano Bozizé, indebolito dall’avanzata dei ribelli del fronte Séléka (che secondo alcuni analisti sarebbe sostenuto proprio dal Ciad), l’isolamento di Omar Al Bashir, impantanato nel confronto col Sud Sudan, proiettano il Ciad verso un ruolo di leadership regionale, anche grazie al sostegno francese.
Non è un caso infatti che Deby sia stato ricevuto da Hollande lo scorso dicembre nonostante le critiche dei militanti dei diritti umani d’Oltralpe. L’abbraccio col Ciad aiuta a comprendere meglio l’approccio di Hollande in materia di politica africana. A differenza di Jacques Chirac che si appoggiava sui dispositivi tradizionali della Françafrique, Francois Hollande non è mai stato un esperto di questioni africane, e anche la struttura del partito socialista negli ultimi anni si è trovata sprovvista dei tradizionali riferimenti in materia africana: è quindi mancata una strategia coerente e complessiva.
Una visione dei rapporti franco-africani, in rottura col sistema tradizionale della Françafrique, è stata tuttavia abbozzata in un’intervista che l’allora candidato socialista concesse a Jeune Afrique nell’agosto 2011. Secondo Hollande, le relazioni tra Parigi e il continente nero dovevano fondarsi su tre principi: il principio di legittimità, cioè il riconoscimento esclusivo dei dirigenti democraticamente eletti e rispettosi dei diritti umani; il principio del rafforzamento delle relazioni nel campo dell’aiuto allo sviluppo; il principio dell’africanità, cioè per dirla con Hollande “dare fiducia agli Africani per regolare le questioni che li riguardano direttamente”.
In un primo momento Hollande è sembrato voler restare fedele a questa visione e, in particolare, al principio di legittimità, come testimonia il suo comportamento al vertice della Francofonia di Kinshasa dell’ottobre del 2012. Il presidente francese ha infatti assunto una posizione insolitamente rigida nei confronti del presidente della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kabila, richiedendo un maggiore rispetto per i diritti umani e soprattutto ostentando in pubblico freddezza nei suoi confronti.
La crisi maliana riporta Hollande a confrontarsi col principio di realtà, facendo riemergere spinte profonde radicate nella tradizione diplomatica francese. In particolar modo, è da registrare un ritorno ai fondamentali della Françafrique. Da un punto di vista militare, si indebolisce la tendenza al rimpatrio dell’esercito francese dall’Africa: a partire dal governo Jospin, era infatti iniziato un processo di smobilitazione delle forze militari presenti sul posto. Il Libro bianco sulla Difesa presentato nel maggio 2012 riconfermava questo orientamento e prevedeva perciò la conclusione di nuovi accordi di difesa con i Paesi africani improntanti ai principi di indipendenza e sovranità nazionale.
Lo stesso Hollande in un’intervista rilasciata a Afrik Magazine nel maggio 2012 aveva affermato che “la presenza delle truppe non era più necessaria”. Il conflitto in Mali ha al contrario rinforzato la presenza dell’esercito francese nel territorio africano. La base di Port Bouet in Costa d’Avorio, di cui proprio Hollande aveva annunciato la smobilitazione, ha visto la sua capacità aumentare negli ultimi mesi; la base di N’djamena, sede dal 1986 dell’operazione Epervier, è diventata un pilastro fondamentale del dispositivo militare transalpino.
L’approccio di Hollande resta tuttavia improntato ad un’estrema elasticità ed è pertanto difficile comprendere se ci troviamo di fronte a tendenze di fondo. La strategia politica del neopresidente, in politica estera come in quella interna, ha sempre rifiutato i protagonismi e l’eccessiva visibilità.
È quindi probabile che, nei prossimi mesi, la Francia cercherà di sfilarsi dalle questioni maliane e africane. Questo disimpegno ricalcherà la lezione che Parigi ha appreso nell’ultimo decennio in Costa d’Avorio: bisognerà pertanto individuare un candidato forte, una sorta di Ouattara maliano, per le prossime elezioni presidenziali che probabilmente si terranno in luglio – anche se le condizioni formali dovessero essere proibitive. Bisognerà inoltre lasciare il campo ad una missione di mantenimento della pace sotto l’egida delle Nazioni Unite di cui i francesi, come in Costa d’Avorio, controlleranno con discrezione le principali posizioni operative ma non quelle apicali che saranno probabilmente “africanizzate”.
Questa strategia di apparente disimpegno non potrà tuttavia rimuovere gli effetti di lungo periodo dell’intervento francese, e soprattutto il rafforzamento del regime ciadiano e il congelamento dei processi di democratizzazione in Africa Sub sahariana. Ciò potrebbe avere importanti conseguenze anche sui prossimi decisivi appuntamenti politici della regione, in particolar modo la successione di Blaise Compaoré in Burkina Faso, un paese-cerniera molto importante per la definizione dello scacchiere regionale.