international analysis and commentary

Mali: sicurezza nazionale e insicurezze europee

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L’intervento francese in Mali solleva due questioni di capitale importanza, tanto per il nostro paese quanto per l’Europa: quale è la natura della crisi e che tipo di minaccia rappresentano i gruppi terroristici e le milizie contro cui sta combattendo l’esercito francese?

La crisi in corso in Mali si articola su tre livelli. Il primo riguarda la situazione del paese, caratterizzato da un fragile processo di transizione politica al sud (a seguito del colpo di Stato del marzo 2012, che ha rovesciato il governo democraticamente eletto) e l’occupazione del nord da parte dei gruppi separatisti e terroristici, una coalizione composta da tuareg, gruppi affiliati ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico e altre fazioni. A ciò si aggiungono le dinamiche regionali del Sahel, una regione sempre più ostaggio di terrorismo internazionale, jihadismo, narcotraffico ed altre organizzazioni criminali. Lo scoppio delle primavere arabe e la destabilizzazione in Nord Africa, in particolare in Libia, hanno poi ulteriormente deteriorato la situazione. Vi è infine un terzo livello, che riguarda la stabilità del cosiddetto vicinato dell’Unione Europea. La presenza di basi terroristiche nel Sahel rappresenta una minaccia per l’Europa, non solo in termini di interessi strategici (ad esempio, energetici) ma anche e soprattutto per la possibilità che da queste basi partano attacchi di varia natura (dirottamenti, attacchi suicidi, prese di ostaggi) anche sul suolo europeo.

Dati questi aspetti, possiamo considerare la minaccia diretta e multidimensionale. Per gli Stati dell’Unione Europea e per l’Italia, la crisi in Mali rappresenta una minaccia diretta alla sicurezza, come del resto lascia intendere la Strategia dell’Unione Europea per la Sicurezza e lo Sviluppo nel Sahel già approvata nel 2011. Si tratta inoltre di una minaccia multidimensionale: il problema non è solo militare e non finirà con il cessare delle operazioni. Complesse problematiche relative a sviluppo economico, governance, giustizia, esclusione sociale, conflitti etnici e religiosi (e via dicendo) rendono gli Stati del Sahel vulnerabili agli estremismi. Di conseguenza, la risoluzione di queste criticità necessita di una visione di lungo periodo che va ben oltre l’operazione militare e che include strategie integrate, dal controllo delle frontiere al rinforzamento dello stato di diritto.

Sulla base di queste considerazioni, si può qualificare l’intervento francese come necessario, legittimo e inevitabile a fronte di una serie di elementi, tra i quali il quadro giuridico (risoluzione unanime del Consiglio di Sicurezza), quello politico (largo sostegno da parte di partners Europei, internazionali e regionali, inclusa la CEDEAO), fino alla richiesta esplicita di intervento da parte del presidente Dioncounda Traoré. Non c’è quindi molto da discutere sul presunto carattere neo-coloniale dell’intervento.

C’è da chiedersi, invece, perché l’Europa non si sia attivata mentre i francesi sono in prima linea. L’Unione Europea di concreto ha fatto poco. L’adozione della Strategia per il Sahel, appunto, e il lancio nel luglio 2012 della missione EUCAP Sahel in Niger per l’addestramento delle forze di sicurezza (polizia, gendarmeria, guardia nazionale). La missione di addestramento militare in Mali (EUTM Mali), finalizzata a migliorare le capacità militari e efficienza operativa delle forze armate, è allo studio da diversi mesi ma è cominciata solo il 17 gennaio, a seguito di una riunione straordinaria dei ministri degli Affari esteri dei 27 paesi EU. Una missione di training che non prevede “boots on the ground” e che lascia quindi aperte le critiche sul mancato utilizzo dei battlegroups, i battaglioni dell’Unione Europea creati appositamente per questo tipo di operazioni e mai utilizzati. Quali sono le ragioni di questo tiepido supporto ai francesi?

Per cominciare, fra gli Stati direttamente minacciati dalla situazione in Mali, la Francia è sicuramente il paese più esposto, ma anche quello che dispone delle capacità militari più adatte per condurre questo tipo di operazione. L’impegno militare francese non dispone, tuttavia, di assoluta autonomia, come dimostrato dalla necessità di chiedere aiuti agli alleati per ovviare alla mancanza di capacità di trasporto aereo o sorveglianza e ricognizione. Conseguenza: non è escluso che, se la Francia dovesse avere difficoltà nel portare a termine l’operazione da sola, l’attuale coalizione si riorganizzi in modo da fornire capacità di intervento più sostanziali e operative.

In secondo luogo, l’Unione Europea ha dimostrato, ancora una volta, di non avere la volontà (o responsabilità) politica di intervenire in questo tipo di operazioni. Le reticenze dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Catherine Ashton, non aiutano; ma il mancato utilizzo dei battlegroups che l’UE ha predisposto da tempo (la Polonia svolge attualmente il ruolo di “nazione quadro”, con Francia e Germania) deriva essenzialmente dalla mancanza di volontà politica delle maggiori capitali europee. La conseguenza è che le insicurezze europee in ambito militare rischiano di indebolire la capacità dell’UE di risolvere i conflitti tramite un approccio integrato e regionale.

Infine, è giusto che l’Italia fornisca appoggio logistico (basi, droni) e invii istruttori. Sarebbe anche giustificata un’azione politica più forte, volta a risolvere i dubbi di quegli alleati (vedi Berlino) che fino ad ora hanno avuto un atteggiamento attendista. Non solo per una questione di sicurezza nazionale, ma anche per rinnovato senso di responsabilità internazionale che può dare all’Italia un ruolo chiave nel riportare stabilità nel vicinato.