Tra gli obiettivi più immediati nell’agenda del secondo mandato di Barack Obama figura la creazione della TPP (Trans Pacific Partnership), una zona di libero scambio nell’area del Pacifico che ingloberebbe 650 milioni di persone con un PIL di 20mila miliardi di dollari. Obama ha presentato il progetto, sul quale da due anni sono in corso negoziati, come uno strumento indispensabile per creare posti di lavoro. Ma non mancano gli ostacoli, sia perché i dieci paesi che hanno finora aderito all’iniziativa hanno esigenze molto diverse e difficilmente compatibili, sia perché la TPP va ad incrociarsi con ambizioni e timori della Cina e del Giappone. È in discussione molto di più un accordo commerciale: si tratta piuttosto della necessaria gamba economica del piano diplomatico-militare che si riassume nel termine pivot to Asia. Di conseguenza, nel negoziato che si sta allungando assai più del limite del 2012 inizialmente fissato, finisce con l’entrare la Cina nelle vesti di scomodo convitato di pietra. E un ruolo decisivo viene svolto da Tokyo, la cui adesione è indispensabile per dare spessore all’intesa.
In dicembre, Canada e Messico si uniranno ai nove paesi che hanno aderito all’iniziativa (oltre a Stati Uniti, Nuova Zelanda, Australia, Singapore, Cile, Perù, Vietnam, Brunei e Malaysia) e parteciperanno al nuovo round negoziale che avrà luogo a Auckland. Questo sviluppo, incoraggiante per Obama, indica che la TPP ha un appeal anche presso i paesi che non hanno la qualifica di “fondatori” e che per il ritardo con cui entrano a far parte del gruppo vengono penalizzati: essendo loro negato il diritto di veto, potrebbero essere costretti a subire norme indesiderate o apertamente svantaggiose. Il problema di fondo è che il grande mercato unico transpacifico trova più consensi in America e in Oceania che in Asia. Un motivo di questo fenomeno è certamente la Cina, che vi si oppone ed anzi ha già provveduto a proporre un’ alternativa: la RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership.
Tra l’una e l’altra ipotesi di zona di libero scambio ci sono certamente differenze di approccio generale: quello di Washington è poco propenso alle “eccezioni” per la difesa di interessi commerciali specifici e alle deroghe rispetto alle regole-base del libero mercato; quello di Pechino è molto più duttile. Più nello specifico non si può andare al momento, poiché il negoziato per la definizione delle regole della TPP, pur essendo giunto già alla 14° sessione ed avendo elaborato schemi di accordo su ben 20 temi, si svolge nella segretezza, mentre la RCEP è ancora tutta da definire nei contenuti. Ma la diversità più importante riguarda lo scacchiere interessato: per la TPP si tratta della costa orientale e quella occidentale del Pacifico, inglobate in un unico settore strategico; per la RCEP è esclusivamente l’Asia più l’Oceania, sulla base di una suddivisione del mondo per macroregioni “continentali”. In estrema sintesi, nell’una non c’è la Cina, nell’altra non ci sono gli Stati Uniti.
Della TPP fanno parte solo quattro Stati asiatici membri dell’ASEAN presenti a titolo individuale: un raccolto ben magro, considerando che hanno preferito un anodino wait and see l’Indonesia, peso massimo dell’ASEAN, come anche la Thailandia e le Filippine, oltre a Laos, Myanmar e Cambogia. Fuori per il momento anche Giappone, Corea del sud e India.
Per la RCEP, l’ASEAN ha invece manifestato interesse nel suo insieme, e ciò non può stupire considerando che esiste già una fitta rete di accordi commerciali tra la Cina e il blocco del Sud Est asiatico. Quanto a Giappone e Corea del Sud, a maggio hanno ufficializzato un’intesa tripartita con Pechino col fine di aprire entro l’anno negoziati in vista della realizzazione di una free trade zone. In estate, a rendere difficile l’attuazione di questo piano, sono sopravvenute la crisi delle Senkaku/Diaoyu tra Cina e Giappone e quella di Takeshima/Dokdo tra Corea del Sud e Giappone. I rapporti tra Tokyo e i due potenziali partner sono così divenuti tesissimi, eppure i tre governi si sono anche sforzati di tenere la politica separata dall’economia. Il negoziato subirà forse qualche rinvio, ma il progetto resta in piedi. La RCEP, dunque, presenta il vantaggio rispetto alla TPP di configurarsi per molti versi non come una novità tutta da inventare, bensì come un accorpamento di vecchi piani ed un perfezionamento di realtà già esistenti.
Proprio in questo contesto, è cruciale per gli americani coinvolgere il Giappone. Ma finora Obama non è riuscito a convincere le autorità di Tokyo a chiedere l’adesione, malgrado già nel novembre 2011 il primo ministro Noda Yoshihiko, fresco di nomina e desideroso di guadagnare credito alla Casa Bianca, avesse promesso il suo sì. Da un lato la grande industria nipponica preme effettivamente per una richiesta di ammissione, convinta che per rilanciare l’economia non si possa fare a meno dei mercati americani. Dall’altro, se venisse meno il proverbiale protezionismo giapponese, si prospetta la rovina per i settori più arretrati dell’economia, a cominciare dal settore agricolo che teme l’invasione di prodotti alimentari a basso costo. Sull’argomento il partito di governo (il Partito democratico) si è spaccato. L’opposizione di destra (Partito liberal-democratico) è per la conservazione delle vecchie barriere, anche se non può ignorare le richieste del grande capitale. Lo stallo appare difficilmente superabile, sebbene Noda abbia fatto circolare la voce che entro l’anno farà richiesta ufficiale di adesione e annunciato il 10 novembre che la TPP figurerà nel programma elettorale del suo partito (peraltro contestualmente all’accordo trilaterale con Cina e Corea del Sud).
Alle titubanze giapponesi si affiancano le resistenze di certi ambienti statunitensi. In testa c’è l’American Automotive Policy Council, un gruppo lobbystico che rappresenta tra gli altri Ford, General Motors e Chrysler: esso osteggia l’entrata nella TPP del Giappone, perché ritiene che Tokyo non abbasserà mai abbastanza le barriere protettive della sua industria automobilistica. Obiezioni che si aggiungono ai dubbi più generali dei Repubblicani, come i 134 membri del Congresso che in luglio hanno chiesto all’amministrazione di rendere nota la bozza dell’intesa sulla TPP per verificare che non indebolisca le politiche del buy American, non faciliti l’ingresso negli Stati Uniti di prodotti fuori norma e non ritardi il riordino dei mercati finanziari.
È l’incertezza dunque a prevalere, mentre si consolida la sensazione che sempre di più il confronto tra Stati Uniti e Cina passi attraverso la creazione di zone di libero scambio. Gli americani negano che la TPP abbia lo scopo di “contenere” la Cina sul piano economico. “Non si tratta di un negoziato diretto contro Pechino”, ha detto il vice rappresentante degli Stati Uniti per il commercio, Demetrios Marantis. E il suo diretto superiore, Ron Kirk, ha ribadito che “Washington non desidera di meglio che vedere la Cina entrare a sua volta in questo patto”. Ma una simile eventualità, sebbene la riconferma di Obama rilanci il dialogo con Pechino anche sulle questioni commerciali e valutarie, è al momento puramente teorica. Pechino ha indicato chiaramente di non gradire la TPP; e, se la Cina aderisse davvero all’accordo, questo perderebbe gran parte del suo significato per molti degli attuali aderenti, che lo vedono proprio come una protezione dall’invasione dei prodotti cinesi.