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I dilemmi per la nuova leadership cinese dietro l’apparenza della transizione morbida

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A pochi giorni di distanza dall’elezione a presidente degli Stati Uniti di Barack Obama, la seconda potenza economica mondiale cambia la sua leadership, anche se in modo decisamente diverso. A leggere i nomi dei gerarchi scelti sembra che i riformisti non abbiano avuto la meglio e che per le riforme tanto attese bisognerà ancora aspettare molti anni.

Mettere la parola fine ai privilegi a favore delle aziende statali e promuovere una sana competizione con le imprese private, lotta alla corruzione nel partito, facilitazioni per il lavoro dei migranti nelle città, interventi a tutto campo per porre termine all’espropriazione delle terre e ai disastri ambientali nella cornice di riforme politiche. È questa la rotta che i membri più riformisti del Partito comunista cinese hanno cercato di far prendere alla formazione politica più grande del mondo (con i suoi 82 milioni di iscritti) durante il suo 18esimo Congresso nazionale tra l’8 e il 15 novembre. Per la Repubblica Popolare quello che si è tenuto nella Grande sala del popolo in Piazza Tienanmen, con 2.307 delegati a Pechino, è stato l’evento politico più importante da dieci anni a questa parte: sono stati infatti ufficializzati i nomi del nuovo segretario del partito, del presidente e del premier del paese insieme a quelli dei sette membri del ristretto Comitato permanente del Politburo, l’organo che di fatto comanderà un miliardo e 300 milioni di cinesi per i prossimi dieci anni. I delegati hanno scelto i 205 membri del Comitato centrale più altri 171 senza diritto di voto. Questi hanno nominato il Politburo, composto da 24 membri, e il Comitato permanente del Politburo.

Il nuovo segretario del Partito comunista cinese, Xi Jinping, che ha preso il posto di Hu Jintao e che a marzo lo sostituirà anche nel ruolo di presidente del paese, non è stato eletto né dai cinesi né dagli altri membri del Partito comunista. Xi è stato in effetti scelto come nuovo leader del paese (insieme a Li Keqiang, numero due nel partito) da circa tre anni mediante una lotta intestina tra le diverse fazioni del partito per la definizione delle loro nomine e degli altri cinque quadri comunisti che sono entrati nel Comitato permanente.

Nello scontro per conquistare un posto al centro del potere comunista avvenuta tra “Lega dei giovani comunisti” e i “principini” (cioè figli di padri della rivoluzione), è risultata decisiva l’influenza dell’ex segretario e uomo più potente della politica cinese Jiang Zemin, mentre Hu Jintao ha avuto la peggio. L’ex segretario a capo della “Lega dei giovani comunisti” è infatti riuscito a promuovere solo un suo uomo nel nuovo Comitato permanente: il moderato Li Keqiang. Gli altri membri sono tutti uomini di Jiang Zemin: Zhang Dejiang, Yu Zhengsheng, Zhang Gaoyu, Liu Yunshan e il vicepremier Wang Qishan, l’unico considerato un riformista. Il segretario di Chongqing Bo Xilai, invece, che da mesi cercava appoggi per entrare nel Comitato permanente, è stato epurato ed espulso dal partito ancora prima dell’inizio del Congresso.

La Quinta generazione di leader comunisti sarà dunque guidata da Xi Jinping, “principino” di origini umili e figlio di Xi Zhongxun – famoso vice premier riformista che disegnò le Zone Economiche Speciali volute da Deng e finito più di una volta in carcere durante la Rivoluzione Culturale per le sue posizioni poco ortodosse. La nuova leadership è stata introdotta al potere da un discorso molto chiaro di Hu Jintao: dopo avere ricordato come da tradizione “il pensiero di Mao Zedong, la teoria di Deng Xiaoping, le ‘Tre rappresentanze’ di Jiang Zemin” e avere emendato la Costituzione per fare introdurre lo “sviluppo scientifico” da lui promosso, ha chiuso la porta a qualsiasi tipo di riforma democratica. Ha così fissato gli obiettivi per il prossimo decennio: “Non copieremo mai i sistemi politici occidentali. Noi dobbiamo proseguire i nostri sforzi per perseguire la riforma della struttura politica e continuare sulla via del socialismo con caratteristiche cinesi”, ha detto. Tradotto: in Cina continuerà a governare e ad essere legale un solo partito, quello comunista. Sul fronte economico l’obiettivo sarà quello di “rendere lo sviluppo cinese più sostenibile e raddoppiare entro il 2020 il PIL del paese e il reddito pro capite degli abitanti di città e di campagna”. Infine Hu Jintao si è scagliato contro la corruzione, uno dei problemi più gravi del paese: “Chi viola la legge deve essere perseguito chiunque egli sia, qualunque ruolo ufficiale abbia. Dobbiamo combattere la corruzione perché rischia di aprire una profonda crisi nel partito e travolgere lo Stato e l’intero paese”.

La corruzione nel Partito comunista cinese è un problema vecchio e mai risolto. Già nel 1994 Jiang Zemin chiamava a “rinnovare gli sforzi contro la corruzione” e nel 2002 tuonava che “se non eliminiamo la corruzione il partito rischierà di autodistruggersi”. Dopo quasi trent’anni il problema però è peggiorato: negli ultimi cinque anni, secondo l’agenzia statale Xinhua, 660 mila funzionari comunisti sono stati trovati colpevoli di corruzione, anche se solo 24 mila di loro sono stati condannati penalmente. Da questo punto di vista non stupiscono affatto le inchieste del New York Times e di Bloomberg secondo cui il premier Wen Jiabao avrebbe accumulato in dieci anni quasi tre miliardi dollari, mentre Xi Jinping disporrebbe già di oltre un miliardo e mezzo di dollari. Cifre enormi, essendo il PIL pro capite annuale cinese pari a 7.500 dollari, il 94esimo del mondo.

L’economia rappresenta naturalmente una grande sfida per la nuova leadership comunista. Gli enormi guadagni del paese non sono ben distribuiti tra la popolazione, tanto che in Cina 70 membri del partito fanno parte delle persone più ricche del mondo mentre 110 milioni di cinesi vivono sotto la soglia della povertà con 1,25 dollari al giorno. Con la crisi mondiale che non accenna a dare tregua, i principali partner commerciali del Dragone (Stati Uniti, UE e Giappone) rallentano, e la stessa economia cinese – che si basa sull’export –  comincia a dare segnali di stanchezza: lo scorso 17 ottobre il National Bureau of Statistics ha annunciato che il PIL cinese è cresciuto del 7,4% nel terzo trimestre, contro l’8,1% del primo. Anche la competitività è oggi considerata uno dei principali problemi economici del paese, soprattutto per la discriminazione tra settore pubblico e privato: alle aziende statali vengono concessi prestiti dalle banche a tassi molto bassi, trattamento di favore non riservato ai privati.

Il problema di fondo è ormai emerso con chiarezza: una più sostenibile distribuzione della ricchezza e la costruzione di un grande mercato interno passano anche per l’abbattimento della corruzione e, in ultima analisi, per la condivisione del potere con il popolo. Come la durissima repressione dei dissidenti prima del Congresso e l’ossessione per le misure di sicurezza hanno dimostrato, però, in Cina la libertà di espressione è ancora di là da venire, e nonostante alcune concessioni retoriche e cosmetiche il regime comunista non è intenzionato a cedere quote di potere. D’altra parte, le tremila proteste popolari che avvengono ogni mese hanno fatto capire al partito che, se non cambia, il paese rischia di collassare.