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Grecia e Spagna: stato dell’arte nei paesi in difficoltà

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Sia in Grecia che in Spagna – pur con le dovute differenze – c’è il grave rischio che si sia innescata una lunga spirale recessiva. Nonostante i grandi sforzi di austerità, e i costi sociali che questi comportano, le tendenze complessive restano molto preoccupanti: ciò rende necessario ripensare quantomeno i tempi delle misure più dure.

Per la terza volta in meno di tre anni il parlamento greco ha approvato, domenica 11 novembre, un consistente pacchetto di riforme teso a ridurre i costi della spesa pubblica e a riformare il mercato del lavoro. Nonostante lo sciopero generale indetto dai principali sindacati del paese e le dure manifestazioni di piazza, il governo di coalizione guidato da Antonis Samaras è riuscito a far approvare le misure di austerità ma solo con una maggioranza risicata, 153 voti rispetto ai 151 necessari. Ciò si deve al fatto che ben sei deputati del Pasok e uno di Nea Dimokratia hanno votato contro le misure di austerità (e per tale ragione sono stati espulsi dai rispettivi gruppi parlamentari) mentre quelli di Sinistra Democratica, il terzo partito della coalizione di maggioranza, si sono astenuti perché contrari alla riforma del mercato del lavoro. L’approvazione delle nuove misure di austerità ha dunque comportato pesanti costi politici per la maggioranza che, a pochi mesi dal voto, vede pericolosamente ridotti i propri numeri.

Altrettanto elevato è il peso che dovranno sostenere i cittadini greci, ormai piegati da una disoccupazione che è ben oltre il 25% (addirittura il 58% tra i giovani) e da oltre cinque anni consecutivi di recessione. Il nuovo pacchetto di austerità comporterà, infatti, tagli per circa 13,5 miliardi di euro che andranno a colpire salari, pensioni e sussidi sociali. Le misure contenute nel disegno di legge di circa seicento pagine prevedono tagli alle pensioni sino al 25%, una riduzione dei cosiddetti “stipendi speciali” (polizia, magistratura, forze armate, medici, docenti universitari e diplomatici) fino a circa il 30%, una riduzione degli stipendi degli impiegati delle aziende controllate dallo Stato tra il 30 e il 35%, il taglio di circa 2.000 impiegati statali nell’immediato e di altri 6.000 nel corso dell’anno prossimo (dovranno essere circa 45.000 in tre anni). Oltre a ciò è previsto l’aumento dell’età pensionabile, che passa dai 65 ai 67 anni, e l’abolizione della previdenza sociale statale che verrà sostituita da forme di indennità che saranno collegate al reddito. È infine prevista l’abolizione delle pensioni dei parlamentari e degli amministratori locali, ma ciò varrà solo per chi sarà eletto d’ora in poi.

L’approvazione di tali misure è stata subito seguita da quella del budget per il 2013, quest’ultima ottenuta con 167 voti favorevoli e 128 contrari. I due voti parlamentari hanno permesso alla Grecia di rispettare due delle precondizioni necessarie a sbloccare la prossima tranche di aiuti da parte dell’Europa, pari a 31,5 miliardi di euro.

Nonostante ciò, l’Eurogruppo riunitosi il 13 novembre ha rinviato la decisione in merito allo sblocco degli aiuti alla Grecia al 20 novembre. Nel corso dell’incontro i ministri delle Finanze europei hanno infatti deciso di concedere due anni in più alla Grecia per la riduzione del deficit al 3%, spostando dunque il termine dal 2014 al 2016. Ciò rende necessario trovare, assieme al FMI, una soluzione per sostenere i costi di tale scelta, che sono stimati attorno ai 30 miliardi di euro. Christine Lagarde ha poi evidenziato come esistano opinioni divergenti tra l’Eurogruppo e il Fmi in merito alla data entro cui far scendere il rapporto debito/PIL al 120%. L’Eurogruppo vorrebbe fosse posticipata al 2022, mentre il FMI insiste perché ciò avvenga entro il 2020.

Nonostante i nuovi pesanti sacrifici imposti ai cittadini greci gli aiuti europei non sono dunque ancora stati sbloccati: ciò è dovuto, oltre che alle divergenze tra Eurogruppo e FMI,  anche al fatto che i paesi a tripla A dell’UE non vogliono sostenere i costi determinati dallo spostamento di due anni del termine per la riduzione del debito greco.

Se Atene piange, certamente Madrid non ride. Come in Grecia, anche nel paese iberico il problema della disoccupazione ha raggiunto dimensioni preoccupanti, arrivando nel mese di settembre al 25,8%, cifra che tra i giovani sale al 54,2%. Come noto, in Spagna la crisi internazionale si è innestata su una forte speculazione edilizia che ha prosperato nel paese nel corso degli ultimi 15 anni, portando all’esplosione della cosiddetta bolla immobiliare. La perdita dei posti di lavoro ha reso impossibile per molti cittadini pagare i propri muti e dunque molti di loro hanno perso la casa. Si calcola che siano state circa 350.000 le famiglie a perdere la propria abitazione e che molte altre rischino lo stesso destino. Ciò comporta dei costi sociali molto alti per il paese, tanto da spingere le banche spagnole ad annunciare, alcuni giorni fa, la sospensione per due anni dei pignoramenti e degli sfratti nei confronti di quanti, per ragioni di estrema necessità, non siano in grado di pagare i mutui.

La crisi economica ha, dunque, determinato una grave crisi sociale, la quale rappresenta un ulteriore costo per la collettività. Ciò è confermato dai dati riguardanti i costi dei sussidi di disoccupazione, che nei primi nove mesi del 2012 ammontano a ben 23,6 miliardi di euro, con un aumento di quasi il 6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Ciò contribuisce ad aggravare la situazione economica del paese, tanto che la Goldman Sachs prevede una contrazione del PIL spagnolo per l’anno in corso di circa l’1,7%. Sembra dunque difficile che Madrid possa centrare l’obiettivo di contenimento del deficit concordato con Bruxelles al 6,3%. A determinare un quadro sempre più fosco per l’economia spagnola sono anche i dati relativi alla produzione industriale, in calo per il tredicesimo mese consecutivo, all’inflazione, 3,5% su base annua, alla fuga dei capitali, ben 341 miliardi a partire dal giugno 2011. Dati che da soli danno la misura della gravissima situazione economica in cui si trova la Spagna.

Come in Grecia, anche in Spagna sino ad oggi si è cercato di rispondere alla crisi in atto mettendo in campo misure tese a ridurre la spesa pubblica e a contenere i costi della macchina statale. E come in Grecia, le politiche di austerità da sole non sembrano però riuscire a fermare la spirale recessiva in cui il paese si sta avvolgendo.

Occorre dunque ripensare le politiche economiche con cui si è cercato di rispondere alla crisi in atto, al fine di rimettere in moto l’economia dei paesi europei in difficoltà. Lo stesso FMI, durante un incontro dei ministri dei paesi del G20 svoltosi in Messico, ha sottolineato come l’eccessiva austerità sia “politicamente e socialmente insostenibile” nella periferia europea, visto che per completare le riforme fiscali e strutturali avviate ci vorranno anni.

Accanto ai costi sociali, già sottolineati, vi è infatti il pericolo che i costi politici della crisi siano tali da indebolire il quadro democratico di paesi come Grecia e Spagna. I successi riportati dai neonazisti di Alba Dorata in Grecia e le ambizioni secessioniste, come quelle catalane e basche in Spagna, sono segnali molto seri cui occorre cercare di rispondere attraverso un rafforzamento dei processi di inclusione sociale, politica ed economica.

Le riforme avviate debbono certamente essere portate avanti, ma occorre forse ripensare i tempi per il loro completamento e affiancare ad esse, in una fase fortemente recessiva come quella attuale, politiche di sviluppo e di crescita. La crisi sociale che stanno vivendo Spagna e Grecia rischia infatti non solo di annullare i benefici economici che si otterranno con le riforme messe in atto, ma anche di produrre un quadro di instabilità politica tale da determinare una crisi della stessa costruzione europea.