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La Francia incerta sul nucleare

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Il nucleare è da oltre trent’anni la colonna portante della produzione energetica francese: vi contribuisce per il 77% – un dato che non ha eguali al mondo. I 58 reattori in attività hanno reso la Francia il primo esportatore netto di elettricità a livello globale. Da candidato, il presidente François Hollande promise di diminuire sensibilmente la percentuale di energia elettrica ottenuta dal nucleare. È un impegno che si rivela molto difficile da tradurre in pratica.

La Francia decise di puntare massicciamente sull’atomo per limitare gli effetti della crisi petrolifera dell’inizio degli anni Settanta. Inizialmente basate su tecnologie di derivazione americana, la costruzione di centrali e la produzione e distribuzione dell’energia passarono a essere gestite da imprese (come EDF e Areva) controllate dallo stato. Queste aziende, grazie agli enormi profitti realizzati attraverso la vendita all’estero dell’energia prodotta in eccesso e la gestione in monopolio del mercato interno, si sono infine trasformate in multinazionali leader del settore, capaci di esportare le tecnologie francesi un po’ dappertutto nel mondo.

La scelta nucleare non ha mai perso il sostegno, più o meno caloroso, dei governi che si sono alternati alla guida del paese. La catastrofe di Chernobyl, nel 1986, spinse la presidenza Mitterrand ad arrestare la costruzione di ulteriori centrali; tuttavia, il programma di realizzazione di nuovi reattori (ogni centrale ne contiene in media quattro) fu portato a termine interamente. Non c’è dubbio però che la popolarità dell’energia nucleare sia andata diminuendo nel corso degli ultimi tre decenni: l’inquietudine dell’opinione pubblica riguarda specialmente la sostenibilità del sistema delle centrali francesi.

Effettivamente, non sono pochi i problemi che lo riguardano, a cominciare da un costo di mantenimento pari a nove miliardi l’anno; molti reattori sono vicini alla fine del loro ciclo vitale e la loro sostituzione non sarà priva di costi. Inoltre, il peso del nucleare nella produzione nazionale ha fatto trascurare gli investimenti e il sostegno alle energie rinnovabili: in questo settore, il paese si trova in ritardo rispetto a Germania, Italia, Spagna e paesi scandinavi. Nonostante il lobbying compiuto con l’aiuto di Londra e Washington, le aziende francesi hanno poi perso dei clienti importanti nel mercato globale, con le recenti rinunce di Germania, Giappone, Italia, Belgio e Svizzera a proseguire sulla strada dell’energia atomica; devono invece fare i conti con la crescente concorrenza cinese e coreana.

Dopo il disastro di Fukushima, l’allora presidente Sarkozy ribadì l’ineluttabilità del modello francese – anche se incaricò una commissione di studiare alcuni scenari di riduzione della produzione. I partiti di destra sono storicamente favorevoli alla scelta nucleare, ispirata da Charles de Gaulle prima nel campo militare e poi in quello civile perché ritenuta capace di garantire l’indipendenza del paese anche di fronte alle superpotenze mondiali. Ben diverso l’atteggiamento a sinistra; i Verdi furono fin dalla loro nascita duramente contrari alla costruzione di centrali, partecipando e ispirando direttamente le proteste che prendevano vita attorno agli impianti più grandi.

Il comportamento dei socialisti è stato invece sempre molto pragmatico, improntato a un’opposizione più simbolica che pratica. Se l’intervento di Mitterrand non aveva bloccato che molto parzialmente lo sviluppo del settore, nel 1997 il primo ministro Lionel Jospin aveva ordinato la chiusura della Superphénix, una megacentrale costata nove miliardi e restata in servizio effettivo solo per una decina d’anni, tra incidenti, stop preventivi e attacchi di ecoterroristi svizzeri (come molti impianti francesi, sorge nei pressi dei confini del paese). Anche François Hollande si distinguerà per una chiusura emblematica: la vetusta centrale di Fessenheim – a pochi chilometri dal territorio tedesco – sarà dismessa nel 2016. Non si procederà al rinnovo dei suoi reattori, così come prevedeva invece il passato governo. Tuttavia, come già ai tempi di Jospin e Mitterrand, gli investimenti in corso nel settore restano operativi.

Potrebbe restare deluso, dunque, chi sperava che il changement sostenuto dal nuovo presidente avrebbe riguardato in un breve periodo anche l’annunciata “transizione ecologica”. Hollande ha riconfermato gli impegni presi in campagna elettorale: sostegno alle rinnovabili, risparmio energetico e soprattutto riduzione del peso del nucleare nella produzione di elettricità al 50% entro il 2025. Non c’è però ancora un programma che stabilisca le risorse e i tempi nei quali questi cambiamenti dovranno avvenire – a parte l’ipotetico orizzonte ultradecennale.

Una svolta “verde” sarebbe senz’altro costosa per il bilancio pubblico. Il settore delle rinnovabili, ad oggi marginale, dovrebbe essere fortemente sussidiato, con un duplice rischio: da un lato, quello di sprecare denaro, perché in tempi di crisi privati cittadini e imprese potrebbero non essere disposti a investire; dall’altro, quello di rendere troppo appetibile il mercato nazionale alle grandi multinazionali cinesi e tedesche del settore, che acquisirebbero facilmente le loro sorelle minori francesi. Al riguardo, si moltiplicano infatti le pressioni di Berlino per la creazione di un’agenzia europea dell’energia solare, che metterebbe di fatto sotto “tutela” il mercato francese. L’alternativa, per Parigi, è quella di pilotare gli investimenti delle grandi società pubbliche, “proteggendo” per un certo periodo il mercato; ma anche in questo caso si correrebbe il pericolo di non rispettare le regole europee sulla concorrenza, e inoltre non si creerebbe quel tessuto di piccole e medie imprese necessario al consolidamento del settore.

D’altra parte, anche la permanenza nel nucleare presenta costi crescenti per l’economia e la politica. Molti dei reattori sono entrati nel quarto decennio di esercizio, soglia che presuppone una loro completa sostituzione con impianti di nuova generazione – la spesa stimata è di due miliardi per ognuno – oppure un prolungamento artificiale della loro attività: scelta meno costosa, ma anche meno apprezzata dall’opinione pubblica. Inoltre, l’indagine decisa dalla Commissione europea dopo Fukushima ha scoperto che gli standard generali di sicurezza di due centrali francesi sono “insufficienti” (si tratta di Chooz e Cattenam, vicinissime rispettivamente alla frontiera belga e lussemburghese), mentre altre soffrono di lacune più specifiche. Benché il parere europeo non sia vincolante, il gestore EDF deve decidere ora tra un costoso adeguamento e il dissenso delle popolazioni locali e dei paesi confinanti.

Infine, l’energia atomica è uno dei motivi di tensione all’interno della “coalizione” rosso-verde. Il ministro socialista delle Attività produttive Arnaud Montebourg ha già fatto presente che il nucleare è una filiera di grande avvenire e che il bilancio non permette sussidi “indiscriminati” mentre il sistema è in ristrutturazione. I Verdi pretenderebbero dal presidente e dal governo un cambiamento di marcia più netto, a cominciare dalla chiusura non di una ma di quattro centrali. La loro capacità di influenza è comunque ridotta ai minimi termini dopo le recenti batoste elettorali.

Dalla risoluzione di questo rebus dipenderà il futuro energetico della Francia; in ogni caso, sarà una soluzione costosa: l’attuale sistema di tariffe artificialmente ribassate, che rende così leggere le bollette transalpine, sarà certamente rivisto. Dalle scelte francesi dipenderà poi la capacità dell’Unione Europea di rispettare i suoi ambiziosi obiettivi nel campo della produzione di energia da fonti rinnovabili; sapremo quindi in quale grado l’opzione tedesca del definitivo abbandono del nucleare riuscirà a imporsi su scala continentale.