international analysis and commentary

La prudenza turca verso la Siria, dietro le apparenze

392

I colpi di mortaio che il 3 ottobre hanno ucciso cinque civili turchi rappresentano l’ultima di una lunga serie di provocazioni registrate sull’asse Damasco-Ankara. Nelle ore successive all’attacco si è molto discusso il quesito se la mozione rapidamente approvata dal parlamento turco (che autorizza il governo a lanciare operazioni militari al di fuori dei confini nazionali), nonché l’invocazione dell’Articolo 4 del trattato NATO (sulle consultazioni interalleate), possano presagire lo scoppio di una guerra con la Siria. Tale prospettiva appare altamente improbabile. In primis in quanto è osteggiata da un’ampia maggioranza dell’opinione pubblica turca – vitale per permettere all’attuale premier Recep Erdogan di competere nelle elezioni presidenziali attese nel 2014 e creare le condizioni necessarie a implementare la costituzione pluralista e democratica più volte promessa dal partito di governo (AKP). Soprattutto, l’ipotesi di uno scontro bellico su vasta scala è contraria agli interessi di tutte le parti in causa, NATO e Siria comprese.

A dispetto degli eventi succedutisi negli ultimi mesi, una consistente maggioranza dell’opinione pubblica turca continua infatti a manifestare una ferma opposizione a un qualsiasi possibile intervento in chiave anti-Assad. Un sondaggio condotto dall’Institute of Strategic Thinking (SDE) ha rilevato che appena il 28% del campione coinvolto si è espresso in sostegno di un’ipotetica operazione militare da condurre in Siria anche se fosse sotto l’egida della comunità internazionale. Tali dati sono in linea con i risultati di un sondaggio ancora più recente condotto dal German Marshall Fund, secondo il quale solo un cittadino turco su tre (32%) ritiene auspicabile un coinvolgimento negli affari siriani.

Non dovrebbe sorprendere che, pur condannando la brutale repressione attuata da Damasco, gran parte dell’opinione pubblica turca guardi con apprensione a un possibile rovesciamento del regime di Bashar al Assad. Ciò è riconducibile a due aspetti principali. Il primo è connesso alla prospettiva che un collasso della Siria possa avere conseguenze destabilizzanti per l’intera regione, creando un vuoto di potere dai risvolti imponderabili. Il secondo, direttamente connesso al primo, è legato alla possibilità di assistere a una progressiva “afganizzazione” del conflitto. Il timore è che l’estremismo religioso, peraltro avversato anche da numerosi oppositori siriani del regime di Assad, possa prendere il sopravvento in un Paese strategico che condivide con la Turchia 911 km di confine. Alcuni analisti, sia turchi che arabi, hanno indicato il pericolo di una deriva settaria con effetti ben più destabilizzanti di quelli registrati a seguito del processo di radicalizzazione – propedeutico all’ascesa di figure come Osama bin Laden – verificatosi all’inizio degli anni Ottanta nella fase seguita all’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Lo scetticismo dell’opinione pubblica trova precisi riscontri anche nell’establishment al potere: “La Turchia – ha chiarito ad esempio İbrahim Kalın, primo consigliere del premier Erdogan, intervenendo su un social network – non ha alcun interesse ad una guerra con la Siria. Tuttavia, la Turchia ha una capacità sufficienti per proteggere i propri confine ed effettuare rappresaglie contro gli attacchi se ciò è necessario”. Ankara è cosciente di essere alle prese con un ampio ventaglio di pressanti sfide che vanno dalla “guerra fredda” con Israele alle tensioni con Teheran, passando per le questioni di politica interna. Un conflitto su larga scala con la Siria – nel quale tanto gli obiettivi da raggiungere quanto una possibile exit strategy non possono che restare avvolti nell’incertezza – metterebbe in dubbio il ruolo di potenza stabilizzatrice giocato finora dalla Turchia; un ruolo che mai come in questa fase storica, caratterizzata da un declino dell’influenza esercitata da Washington e dalle incertezze legate alle primavere arabe, può garantire ad Ankara il prestigio al quale ambisce.

I colpi di artiglieria sparati nella notte contro la città siriana di Tel Abyad sono stati una risposta tanto limitata quanto flessibile. Il premier Erdogan doveva replicare all’affronto subìto, ma tutti gli indizi inducono a pensare che sia fortemente propenso a scongiurare una possibile escalation. I movimenti dei carri armati lungo i confini e le discussioni sulla creazione di una possibile no-fly zone – vista da molti con sospetto come un potenziale pericoloso assist in favore del secessionismo curdo – proseguiranno anche nelle settimane e nei mesi a seguire. Ankara, tuttavia, non farà il passo più lungo della gamba. Con ogni probabilità non varcherà i suoi confini. Non fosse altro per il fatto che la Turchia ha molto da perdere e poco da guadagnare rispetto alla Siria.