La crisi siriana, da oltre un anno avvitata attorno allo scontro tra sostenitori e oppositori del regime di Bashar al Assad, sembra aver varcato definitivamente le frontiere del Libano. Le ragioni del contagio vanno ricercate nella profonda interdipendenza tra i sistemi politici dei due paesi, peraltro sancita da 29 anni di presenza militare siriana sul territorio libanese (1976-2005); a risvegliarsi, però, sono anche le complesse dinamiche interconfessionali che accomunano le due società.
La scintilla che ha fatto esplodere la tensione in Libano è stata l’arresto da parte della Securité Générale libanese, il 13 maggio, di un religioso sunnita, Shadi al-Moulawi, con l’accusa di collusione con gruppi terroristici. Poche ore dopo, le strade di Tripoli – la roccaforte libanese del conservatorismo sunnita – sono diventate teatro di una vera guerriglia urbana: la polarizzazione è tutta tra i sostenitori sunniti della resistenza al regime siriano e la comunità degli Alawiti, il gruppo confessionale sciita cui appartiene anche il clan degli Assad.
Ad inasprire i dissidi è stata poi l’uccisione – il 20 maggio – degli sceicchi Ahmad Mohammad Abdelwahed e Mohammad Hussein Merheb da parte di alcuni soldati libanesi. Secondo i militari, i religiosi non si sarebbero fermati ad un posto di blocco, mentre viaggiavano nella regione di Akkar, al confine nord con la Siria.
La morte dei due sceicchi ha immediatamente infiammato i quartieri sunniti e sciiti di Tripoli e Beirut.
L’accusa più forte – e più politicamente destabilizzante – è stata quella rivolta all’esercito libanese di essere al soldo del regime di Damasco, e al governo libanese di essere comunque responsabile (almeno indirettamente) dell’omicidio dei due religiosi. La delegittimazione da parte sunnita del governo in carica, attualmente capeggiato dai partiti sciiti Hezbollah e Amal, potrebbe essere il pericoloso primo passo verso una strada che porta inevitabilmente verso la guerra civile.
Che Bashar al Assad possa contare su molti “amici” libanesi non è un mistero. Nonostante il ritiro forzato dei siriani dal Libano nella primavera del 2005, la longa manus damascena ha continuato ad imporsi sulla politica libanese. E non è un mistero neppure che la valle della Bekka, attraversata dalla superstrada che collega Beirut a Damasco, sia stata nell’ultimo anno un via vai di auto blu.
Il principale elemento che unisce i due sistemi politici è Hezbollah – al contempo un partito politico e un gruppo militante – a capo del gruppo parlamentare dell’“8 marzo”, attualmente detentore della maggioranza di governo. Hezbollah, che con il regime di Assad condivide l’identità sciita, fin dagli anni Ottanta riceve sostegno militare ed economico dalla Siria e dall’Iran. È inoltre provato che alcuni militanti di Hezbollah siano partiti per la Siria negli ultimi mesi per dar sostegno all’esercito siriano.
Assad è, inoltre, amico personale del primo ministro libanese, il sunnita Najib Mikati. Quando quest’ultimo fu incaricato di creare il nuovo governo, il 30 giugno 2011, il sospetto che la sua nomina fosse stata decisa a Damasco si levò da molte parti. Il governo siriano gode, infine, di un velato sostegno – o quanto meno di una non-ostilità – anche da parte dei cristiani libanesi. Lo stesso presidente, il cristiano maronita Michel Suleiman non si è mai pronunciato contro la legittimità di Assad. E il nuovo patriarca maronita, Bishara al-Rai, eletto proprio il giorno di inizio della rivolta siriana (il 15 marzo 2011), ha più volte parlato in favore degli slanci riformisti di Assad e sostenuto il dialogo con Hezbollah – a differenza del suo predecessore, l’anti-siriano patriarca Nasrallah Sfeir.
Se rovesciamo la prospettiva, però, anche l’opposizione siriana negli ultimi mesi ha trovato in alcune frange della comunità sunnita libanese un solido sostegno sia per il transito di armi destinate alla resistenza sia per la protezione di alcuni oppositori politici.
In questo mosaico, a catalizzare lo scontro tra sunniti e sciiti in Libano è proprio la persistente influenza esercitata dalla Siria: da un lato sembra che Damasco usi il Libano come arma di ricatto nei confronti della comunità internazionale. Il rischio concreto che Assad possa destabilizzare gravemente gli equilibri tra Sunniti e Sciiti nella regione ha, d’altra parte, rappresentato finora la preoccupazione principale della comunità internazionale, e dunque uno degli elementi di forza del regime siriano. Anche l’alleanza tra sunniti siriani e libanesi è un elemento che polarizza i rapporti tra i due gruppi confessionali. Il recente rapimento nei pressi di Aleppo, in Siria, di un gruppo di sciiti libanesi che tornavano in patria da un pellegrinaggio in Iran è un ulteriore segno della strumentalizzazione delle divisioni settarie.
A circa vent’anni dalla fine della sua quindicennale guerra civile, il Libano sembra così rimanere imbrigliato nel suo carattere di “stato cuscinetto” – in grado, cioè, di assorbire (ma anche scontare) le dinamiche prodotte dagli interessi degli attori regionali. In un contesto regionale sempre più marcato dall’opposizione tra i governi sunniti del Golfo (protettori espliciti della comunità sunnita libanese) e quelli sciiti di Siria e Iran, (vicini alla comunità sciita e alleati di Hezbollah) è sempre più precario l’equilibrio interno del Libano, la cui storia è indelebilmente segnata dall’influenza nefasta degli attori esterni.