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La lenta evoluzione del Consiglio di Cooperazione del Golfo

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Lo scorso 14 maggio, i leader del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) si sono riuniti a Riyād per il 14esimo vertice consultivo dell’organizzazione: temi principali del summit sono stati la crisi siriana e le rinnovate tensioni tra Emirati Arabi Uniti e Iran derivanti dalla contesa per le isole di Abu Musa e Grande e Piccola Tunb nello Stretto di Hormuz. Nell’ambito delle discussioni sulle politiche economiche e di sicurezza regionali, è stata avanzata dall’Arabia Saudita una proposta di rinnovamento dell’attuale struttura del consesso regionale: l’obiettivo è una possibile unione ricalcata sul modello dell’Unione Europea.

Nelle aspettative della monarchia saudita – peraltro non nuova a progetti di evoluzione del CCG – la riunione avrebbe dovuto portare ad un primo accordo di un’unione tra Arabia Saudita e Bahrein  quale passo preliminare verso un futuro coinvolgimento degli altri paesi-membri del Consiglio (Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar). Ma sono emerse nuovamente, come altre volte in passato, forti riserve da parte di questi ultimi: il timore è quello di una perdita di autonomia e perfino sovranità a vantaggio, di fatto, di Riyād – in quanto attore decisamente più influente nell’area. Per tale ragione gli altri paesi del CCG hanno respinto l’ipotesi di un’unione doganale, di una moneta unica (Khaleeji), di un mercato caratterizzato dalla libera circolazione di merci e lavoratori, e di un parlamento sovranazionale delle monarchie del Golfo. Così, dalla riunione del 14 maggio è scaturita una sola dichiarazione ufficiale con l’annuncio di una commissione incaricata di studiare il progetto e che presenterà le proprie conclusioni nel prossimo vertice, in programma a dicembre a Manama.

Il quadro regionale è dominato oggi dalla minaccia iraniana, e dal relativo tentativo saudita di ergersi a garante della stabilità dei paesi vicini. D’altra parte, proprio la questione Iran era stata una delle motivazioni di fondo per la creazione del CCG nel 1981 e della Peninsula Shield Force nel 1984 – cioè quell’esercito (almeno formalmente) integrato dei sei paesi membri che nella primavera 2011 è intervenuto per sedare le rivolte in Bahrein. In effetti, le rivolte arabe, la crisi siriana, la crescente influenza iraniana in Iraq e le rinnovate tensioni settarie nella regione, hanno contribuito a conferire al CCG nuovo dinamismo politico ed economico; si è dunque riacceso anche il dibattito su una possibile evoluzione dell’organizzazione.

La questione è però complicata dai fattori sociopolitici in azione nella regione mediorientale: è sempre più evidente la contrapposizione tra i paesi sunniti del Golfo e l’Iran sciita, che ha pericolose ripercussioni all’interno di vari paesi arabi. In particolare, in Bahrein e nella ricca regione orientale del Qatif in Arabia Saudita le comunità sciite hanno guidato, nel 2011, le rivolte (poi fallite) che sono subito state indicate da Riyād e Manama come il frutto di un complotto iraniano.

Il tentativo di limitare l’influenza politica di Teheran – e garantire un ruolo strategico rilevante ad una possibile “Unione del Golfo” – è evidente anche in Siria: questo paese, scosso da una crisi gravissima, è divenuto il simbolo di una battaglia ideologica tra le due comunità islamiche, sciita e sannita, che influisce però direttamente sul più ampio equilibrio di potere regionale. Un cambio di regime a Damasco, infatti, avrebbe come conseguenza un’affermazione del ruolo-guida del CCG, e dunque soprattutto dell’Arabia Saudita, in alternativa anche alla Turchia e alla Lega Araba. 

Dietro all’evoluzione del Consiglio ci sono del resto importanti considerazioni economiche, oltre che di sicurezza: una “Unione del Golfo” più integrata potrebbe accelerare il processo (già in corso) di diversificazione economica dei paesi membri, e accrescerne al contempo il peso aggregato sul piano globale. L’unione costituirebbe infatti un potente blocco economico, con un PIL superiore ai 1.400 miliardi di dollari e un mercato unico di 42 milioni di persone (composto di una popolazione per il 65% al di sotto dei 30 anni). L’“Unione del Golfo” renderebbe le monarchie arabo-sunnite un attore economico-strategico capace di attrarre investimenti diretti esteri e altamente competitivo non solo nei mercati mediorientali, ma anche lungo le rotte commerciali dell’Africa subsahariana e dell’Asia centro-orientale. È probabilmente questo l’incentivo in grado di far superare le molte esitazioni sulla strada di una vera integrazione regionale del Golfo: la minaccia iraniana resta ad oggi il vero collante dell’organizzazione, ma non sarà sufficiente per fare passi avanti sostanziali.