Dopo la partenza delle ultime truppe statunitensi dall’Iraq, avvenuta a metà dello scorso dicembre, la decisione del governo di Nouri al-Maliki (a guida sciita) di spiccare un mandato di arresto per il vice presidente iracheno Tareq al-Hashemi (sunnita) ha segnato un rapido deterioramento del confronto politico. E ha fatto riaffiorare, in tutta la sua gravità, l’irrisolta questione etnica in una fase che rimane di transizione politica sullo sfondo di una fragile architettura costituzionale. Contrastare la progressiva marginalizzazione di curdi e sunniti, e ridimensionare la componente sciita, sono passaggi obbligati per Washington, visto il tentativo di Teheran di espandere la propria influenza in Iraq.
Già all’inizio di dicembre, il confronto tra le parti politiche in Iraq si era fatto teso, proprio mentre l’imminente partenza delle truppe americane dal paese creava un clima di incertezza. Nel tentativo di sottrarsi all’accentramento di potere del premier al-Maliki (che ha assunto l’interim della difesa, degli interni e della sicurezza nazionale), i parlamentari di al-Iraqiya (sigla sotto cui si sono riuniti i sunniti nelle elezioni del 2010) avevano tentato di proclamare l’autonomia della provincia di Diyala (a nordest di Baghdad, lungo il confine iraniano). Ad appoggiare questa iniziativa – basata sull’art. 119 della costituzione che garantisce il decentramento amministrativo – sono stati anche i rappresentanti curdi, ai quali in cambio del voto veniva promesso il controllo del distretto di Khanaqin. La prevedibile risposta sciita, arrivata il 17 dicembre per bocca dello stesso premier, dichiarava l’illegittimità del voto, provocando l’abbandono del parlamento da parte dei deputati di al-Iraqiya. A rincarare la dose, il giorno seguente veniva proposta una mozione di sfiducia contro il vice premier sunnita Saleh al-Mutlaq, colpevole di aver rilasciato pesanti dichiarazioni contro Maliki durante un’intervista alla CNN. Lo stesso giorno il vice presidente Tareq al-Hashemi, anch’egli sunnita, lasciava Baghdad alla volta di Arbil, dove il Kurdistan Regional Goverment (KRG) gli avrebbe offerto rifugio contro il mandato di arresto spiccato contro di lui. L’accusa era quella di essere il mandante di una squadra di sicari che avrebbe eseguito attacchi e omicidi mirati contro gli esponenti sciiti del governo e attentato alla vita dello stesso al-Maliki (con l’esplosione di un’autobomba il 28 novembre).
La mossa di al-Maliki, forse dettata dal timore di sconvolgimenti interni in stile siriano, ha provocato una paralisi istituzionale dagli esiti imprevedibili. Sebbene il presidente Talabani e il KRG abbiano respinto le richieste di Baghdad per la consegna di al-Hashemi, gli strumenti a disposizione di curdi e sunniti per contrastare l’offensiva sciita sono limitati. Dal punto di vista politico, una risposta in parlamento – da attuarsi tramite un voto di sfiducia nei confronti del premier o con il ritiro dei propri rappresentanti – non avrebbe effetti concreti. L’assenza di un esecutivo lascerebbe, infatti, tutto il potere nelle mani degli apparati di sicurezza e di intelligence, interamente controllati dagli sciiti. La componente sciita, in sostanza, rimarrebbe comodamente in attesa della prossima tornata elettorale.
In questo quadro delicatissimo, si deve ricordare che resta però almeno un canale di influenza esterna diretta sul governo iracheno: lo dimostra una recente vicenda che ha coinvolto la multinazionale ExxonMobil. Si deve ricordare che il 90% del bilancio statale proviene dall’estrazione di idrocarburi ed è dunque assolutamente decisiva per qualunque possibile rilancio dell’economia nazionale.
Lo scorso ottobre, l’americana ExxonMobil aveva siglato, senza l’autorizzazione di Baghdad, un accordo con le autorità del KRG per avviare indagini esplorative di gas naturale nel Kurdistan. Al-Maliki aveva risposto seccamente, minacciando di tagliar fuori dai giacimenti meridionali la major statunitense e tutte le altre imprese internazionali che avessero sottoscritto accordi per lo sfruttamento del sottosuolo senza la previa autorizzazione del governo centrale. Dopo una serie di consultazioni tra Baghdad e i responsabili delle ExxonMobil, a fine gennaio la multinazionale ha potuto riprendere le esplorazioni in Kurdistan. E’ chiaro che il potere contrattuale di Baghdad, quando si parla di petrolio, è limitato dalla consapevolezza che le imprese energetiche che operano nel paese sono portatrici di capitali e tecnologie di cui l’Iraq non può fare a meno.
LA ExxonMobil, insieme alla britannica BP, l’italiana ENI, l’anglo-olandese Royal Dutch-Shell e alla francese Total SA, si è fatta promotrice di un progetto multimilionario per la realizzazione di un sistema di iniezione idraulica, che aumenterebbe considerevolmente la produzione di greggio iracheno. Il costo del progetto è di circa 3 miliardi di dollari e interessa i giacimenti meridionali (in particolare i pozzi di West Qurna I e II, Rumalia e Majnoun). E’ assai probabile che il timore di un possibile fallimento del progetto o di un ritiro della Exxon dall’iniziativa, abbiano indotto al-Maliki a tornare su sui passi, concedendo all’impresa americana e al KRG di fare affari senza il coinvolgimento del governo federale.
Gli Stati Uniti, militarmente fuori dal paese – ma non per questo disposti a diminuire la loro influenza su Baghdad – potrebbero trasformare gli investimenti in campo energetico in un efficace strumento di contenimento dell’offensiva politica sciita. D’altra parte, è noto a tutti il ruolo dell’Iran nelle vicende irachene e l’obiettivo iraniano di creare in Iraq un retroterra da cui espandere la propria influenza in Medio Oriente. Anche in questa ottica geopolitica regionale, la leva energetica può essere utilizzata dagli Stati Uniti per conservare un ruolo attivo senza dare l’impressione di farsi nuovamente invischiare nella politica interna irachena. Nei mesi decisivi per la campagna presidenziale di Barack Obama, si tratta del resto di un’esigenza non solo strategica ma al contempo elettorale.