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Afghanistan: per gli USA, un ritiro più rapido?

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Non c’era forse peggior viatico possibile per la visita del primo ministro britannico David Cameron negli Stati uniti che la vicenda del sergente americano che, alla vigilia della partenza, ha fatto strage di civili in un distretto della provincia afgana di Kandahar. L’ennesimo episodio, che rinfocola polemiche e riattizza la rabbia degli afgani, consente  però, paradossalmente, un’accelerazione da cui – oltre che i talebani – possono trarre vantaggio sia il governo di Kabul, sia l’Amministrazione Obama. Vediamo perché.

C’è ormai una sequenza davvero grave di episodi: le vicende del “Kill Team” (un gruppo di soldati capitanati dal sergente Calvin Gibbs, condannato recentemente all’ergastolo per l’uccisione di afgani inermi), le umiliazioni sui corpi di talebani morti (c’è un video su cui è stata promessa un’inchiesta per ora senza risultati pubblici) e la vicenda dei Corani bruciati (malamente gestita e al momento senza colpevoli palesi). Gli Stati uniti hanno già fatto sapere, attraverso le parole del capo del Pentagono, Leon Panetta, che il colpevole di Kandahar rischia la pena di morte: Panetta ha colto l’occasione di una visita in Afghanistan (in realtà programmata da tempo) per mostrare così una rapidità di reazione americana senza precedenti. Le scuse ufficiali infine sono state velocissime anche da parte dello stesso presidente Obama, così come l’avvio dell’inchiesta e l’arresto del colpevole: nonostante le reazioni del parlamento (chiuso per un giorno in segno di protesta), l’esecutivo afgano si è così affrettato a dichiarare che la vicenda non comprometterà il negoziato sull’accordo tra Washington e Kabul che deve regolare la presenza americana dopo il 2014.

Obama dovrebbe quindi arrivare all’appuntamento di maggio (il vertice Nato che si terrà nella sua città, Chicago) rafforzato da una exit strategy che inizia a dare i suoi frutti. E rafforzato nella scelta, che la vicenda di Kandahar ha accelerato, di un ritiro forse più rapido dei suoi soldati dal teatro, anche se pubblicamente il presidente si dice favorevole a un’uscita senza troppa fretta («We don’t rush for the exits in a way that could end up leading to more chaos and more disaster…»): questo sembra soprattutto un modo per tenere a bada alcuni settori del Pentagono e i parlamentari più critici.

Su un’accelerazione del ritiro in realtà non c’è ancora una posizione ufficiale, che potrebbe essere presentata proprio al summit Nato: si potrebbe trattare di 20mila soldati in più entro metà 2013, secondo il New York Times,  oltre a quanto finora previsto (22mila circa entro settembre 2012). Una mossa che mira a ridurre il contingente (e le spese relative) della metà rispetto all’anno scorso (quando c’erano circa 100mila soldati americani), ben prima della scadenza del 2014, anno che dovrebbe concludersi con la fuoruscita quasi totale dei soldati occidentali dall’ Afghanistan.

Se i repubblicani  avevano dunque utilizzato la vicenda dei Corani come grimaldello per dimostrare la debolezza di Obama (costretto a loro avviso a scuse ufficiali a Karzai non dovute), la più recente vicenda di Kandahar li ha spiazzati, e il vertice di Chicago rischia di risolversi con la vittoria delle tesi del presidente: accelerare l’uscita dei soldati mantenendo un piede in Afghanistan, e terminare una guerra sempre più impopolare senza perdere la faccia.

Anche Hamid Karzai – sempre debole sul piano nazionale – può trarre vantaggio dagli ultimi sviluppi. Il presidente afgano, indispettito nei mesi scorsi dalla gestione del negoziato coi talebani (condotto da Berlino e Washington senza consultarlo), ha avuto buon gioco  nella trattativa-quadro sulla permanenza americana in Afghanistan dopo il 2014: gli americani hanno ceduto su una questione dirimente, cioè il passaggio di consegne per i detenuti afgani nella grande base americana di Bagram (un’ala della quale è adibita a prigione di guerra) sotto la giurisdizione afgana. Ora, la vicenda Kandahar potrebbe assegnare a Karzai un altro punto: la fine o la netta riduzione dei raid aerei notturni, altra richiesta reiterata del presidente. Ottenuti questi due atout, Karzai potrebbe persino rivendicare come sua l’accelerazione dell’uscita di scena di gran parte dei soldati Nato/americani, e servirsene sia nella trattativa coi talebani sia di fronte a un parlamento riottoso (che è comunque incapace di organizzargli contro una vera e propria opposizione coordinata). Il presidente ha anche rivendicato la luce verde per il trasferimento a Doha – dove la guerriglia dovrebbe aprire un “ufficio politico” – dei cinque prigionieri talebani detenuti a Guantanamo, oggetto iniziale di una trattativa tra mullah Omar e gli americani.

Così impostato, il negoziato – che sino a ieri è stato gestito da due attori estranei al governo di Kabul (i talebani e gli occidentali) – rientrerebbe nei binari afgani, assegnando finalmente al presidente Karzai un ruolo centrale.

Ovviamente da tutto ciò anche la la guerriglia in turbante tenta di avvantaggiarsi della situazione, e ha annunciato di aver sospeso il negoziato. Ma la propaganda talebana questa volta ha avuto poca presa sulla popolazione civile, se si escludono le comprensibili manifestazioni nell’area della strage e qualche dimostrazione abbastanza contenuta altrove (a Jalalabad ad esempio): Sembrano i segni di una stanchezza popolare e di un’incapacità della guerriglia di trasformare la diffusa  rabbia in un consenso militante e popolare alla causa nazional-islamica del movimento.

Rimane per gli americani una questione più generale di management della truppa, ossia la gestione del contingente – una questione cruciale che si collega alla scarsa fiducia della leadership militare afgana nel tipo di addestramento che gli americani danno alle truppe nazionali. Da notare inoltre che la presenza di formatori dell’esercito americano è prevista senza un limite preciso di tempo: è proprio questo ruolo sul terreno la formula che consentirà, dopo il ritiro, di conservare una presenza di soldati che il Pentagono ritiene irrinunciabile, senza che, auspicabilmente, sia percepita come forza di occupazione.