Il primo ministro del Pakistan, Yusuf Raza Gilani, dovrà tornare davanti alla Corte Suprema del suo paese: è stato accusato di oltraggio per non aver richiesto alle autorità elvetiche, nel 2003, di indagare su controversi movimenti bancari in Svizzera riconducibili a tangenti pagate a Benazir Bhutto e a suo marito Asif Ali Zardari, attuale presidente in carica.
La cronaca del caso, ormai più politico che giudiziario, è lunga e tortuosa: nel 2007 Musharraf, il generale golpista, aveva concesso l’amnistia a Zardari e sua moglie, lasciandoli tornare dall’esilio. Ma nel 2009 la Corte suprema aveva dichiarato incostituzionale l’amnistia. Convocato dalla Corte Suprema il 19 gennaio scorso, Gilani si è difeso sostenendo che la Costituzione pachistana garantisce al presidente l’immunità. Ma i giudici potrebbero ora scegliere l’arresto del premier o costringerlo a dimettersi, facendo precipitare la crisi interna.
Gli osservatori sono concordi nel ritenere che, più che Gilani, la Corte Suprema intenda colpire il presidente Zardari – nemico acerrimo del magistrato a capo della Corte, Iftikhar Muhammad Chaudhry.
Come detto, lo scontro è eminentemente politico, e non è (solo) tra magistrati e governo. L’altro grande attore sulla scena sono infatti i militari: un esercito ben armato e con una fortissima presenza nel paese, compreso un alto grado di controllo sull’economia, su alcuni dei partiti politici e anche delle formazioni estremiste religiose. Spesso alleati dei mullah più radicali, i militari pachistani sono più che un’istituzione, un contropotere: fino ad ora, non hanno mai permesso a una legislatura civile di arrivare a fine mandato. Facendo finire la corsa, di solito, con un golpe – e questo è proprio lo scenario che si è nuovamente affacciato sulla scena nazionale.
Per dirla con Christina Lamb, una reporter britannica espulsa dal Pakistan e autrice di un libro illuminante che il tempo non riesce a datare (Waiting for Allah, del 1991), l’esercito è, con la folta schiera dei civil servant, il vero governo del Paese. Di volta in volta l’esercito sceglie le sue alleanze, molte delle quali nelle istituzioni pubbliche, come appunto la magistratura. Questa è la leva che, in questa fase, i generali pachistani vogliono usare senza ricorrere al golpe. Se la Corte suprema obbliga i suoi nemici a dimettersi, è inutile sporcarsi le mani. Anche perché, ha spiegato Jason Burke sulle colonne del Guardian, il Pakistan non è più il Paese che si poteva controllare occupando la televisione di Stato per fare un proclama. Oggi tutti vedono anche canali satellitari indipendenti e sono meno propensi a tollerare uomini forti come Zia Ul Haq o Pervez Musharraf. Ma, soprattutto, i militari sono preoccupati dalle possibili reazioni della comunità internazionale e, in particolare, degli americani.
Il rapporto con gli americani è, a ben guardare, il vero nodo. E’ da questo che deriva in gran parte il dissidio tra l’esercito e il governo civile: inetto, forse corrotto, ma soprattutto non in grado – non solo agli occhi dei militari – di difendere la sovranità del Paese, più volte violata dai droni inviati da Obama per colpire qaedisti e jihadisti nelle aree tribali al confine con l’Afghanistan. Nel contempo però gli americani sono anche la garanzia di finanziamenti che in gran parte vanno proprio ai militari. E restano una tutela nel caso in cui l’India decidesse di alzare il livello della contrapposizione, già costata diversi conflitti ai due Paesi. Infine c’è l’Afghanistan, strettamente interconnesso con tutto quanto riguarda la sicurezza nazionale del Pakistan. I pachistani sono stati tagliati fuori dai negoziati a tre coi talebani: prima i colloqui erano solo tra americani e guerriglia, ma poi l’Amministrazione (messa sotto pressione da Garzai) ha imbarcato anche Kabul. Ma non Islamabad: un affronto che né Gilani né Zardari hanno saputo gestire. Questo sviluppo va ovviamente a sommato al capitolo bin Laden chiuso la scorsa primavera proprio in territorio pachistano e, più recentemente al raid della Nato che, in novembre, ha ucciso per errore 24 soldati pachistani alla frontiera, portando alla chiusura dei passi di Chaman e Kyber attraverso cui passa un terzo dei rifornimenti alle truppe Isaf-Nato in Afghanistan.
Nell’ottobre scorso è inoltre emerso il cosiddetto “memogate”: un memorandum nel quale il governo civile del Pakistan chiede aiuto a Washington paventando un golpe militare. Il memo è indirizzato all’allora capo di stato maggiore ammiraglio Mike Mullen, e sotto accusa (con l’ipotesi di altro tradimento) è finito l’ambasciatore di Islamabad a Washington.
E’ di qualche giorno fa la decisione di rifiutare la visita dell’inviato speciale americano per l’AfPak, Marc Grossa: un fatto senza precedenti e che accade proprio mentre Grossman si reca a Kabul e nel Golfo per mettere a punto la possibile apertura di un ufficio politico dei talebani in Qatar. Mossa da cui Islamabad è stata esclusa.
I militari rispondono attualmente a due figure chiave: il generale Ashfaq Parvez Kayani, a capo delle forze armate, e il generale Ahmad Shuja Pasha, che dirigi l’Isi, i servizi di sicurezza più potenti dell’apparato dell’intelligence pachistana. Questa seconda componente dell’establishment non coincide con l’élite occidentalizzante rappresentata da Zardari e Gilani, ma tiene in conto l’opinione di quei segmenti di popolazione urbana che rappresentano una nuova borghesia modernista e non bigotta.
Come si vede, da questo intreccio di forze interne al Pakistan dipende un equilibrio tanto delicato quanto importante sul piano internazionale.