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Il caso siriano che può incendiare il Medio Oriente

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Il mondo arabo cerca faticosamente di valutare le opzioni sulla crisi in Siria. C’è chi suggerisce una “yemenizzazione” del caso siriano, con un al-Assad ufficialmente estromesso dal potere ma ufficiosamente in carica; chi punta sulla spaccatura all’interno della comunità alawita, al potere in Siria per una transizione; chi ritiene sia imminente un intervento straniero che avrebbe un impatto profondo sulla sicurezza regionale; chi paventa scenari da nuova guerra fredda, con Stati Uniti, Turchia e Islam sunnita-politico da una parte e Russia, Iran e Islam politico sciita dall’altra; e infine chi ripropone la spauracchio di al Qaida in caso di collasso del regime siriano.

È in questo clima di estrema tensione e incertezza che la Siria ha raggiunto il decimo mese di scontri e violenze, sotto un regime che ha più volte ribadito la sua intenzione di non cedere alle pressioni interne, regionali e internazionali. Come era prevedibile, le azioni e le pressioni della Lega Araba, dell’ONU, della comunità internazionale (compresa la missione di  osservatori), sono state vane.

Per comprendere quale sarà la strategia che il regime adotterà nel breve periodo è utile leggere tra le righe del discorso che il Presidente Bashar al-Assad ha tenuto lo scorso 10 gennaio nell’aula magna dell’Università di Damasco. Già all’inizio delle rivolte il Presidente aveva dichiarato alla Camera: “La nostra priorità è la sicurezza nazionale”. A distanza di un anno, il suo messaggio non cambia, e lascia intendere senza mezzi termini che il regime ha tuttora il potere – e ritiene di avere anche il dovere – di esercitare con la forza la sua autorità quando ad essere sotto minaccia non è  solo il governo ma lo Stato. Quella adottata da Assad è la logica del “complotto”; che sia la longa manus occidentale, che sia la Fratellanza Musulmana, che sia Al-Qaida, sembra non fare differenza.

Dalle espressioni-chiave usate nel discorso del 10 gennaio si può valutare in parte anche l’impatto che la strategia del regime potrebbe avere sugli assetti geopolitici e di sicurezza nella regione.

In termini geopolitici, il regime intende fare appello al – o meglio strumentalizzare il –  “sentimento nazionale” quale energia per portare avanti il “duro lavoro” della violenta repressione interna. Questa è finalizzata a contrastare una minaccia alla Nazione rappresentata da una “cospirazione straniera”, da un “attacco mediatico” e dal “terrorismo”.

Forte delle sua capacità militari, ma soprattutto del sostegno dell’Iran e dei rapporti con Hezbollah, il regime siriano si pone dunque in una posizione di sfida anche nei confronti della Lega araba. L’intervento straniero, secondo Al-Assad, sarebbe un atto ostile proprio contro l’ultimo baluardo del nazionalismo arabo.

Riguardo agli assetti geopolitici regionali e alla posizione di Israele, il quotidiano kuwaitiano Al-Siyasa parla di “negoziati” in corso da mesi fra emissari siriani e Hezbollah, da un lato, e rappresentanti del governo israeliano, dall’altro. Secondo le informazioni trapelate dal quotidiano arabo, l’«asse della resistenza» (Damasco e Hezbollah, appunto) si sarebbe impegnato a garantire la sicurezza delle frontiere israeliane, chiedendo in cambio allo Stato ebraico di non sostenere la rivolta siriana e di permettere la repressione. Alla luce della crisi siriana, starebbero in effetti emergendo due correnti all’interno dell’establishment israeliano: l’intelligence sarebbe propensa a sostenere Al-Assad, mentre la classe politica sarebbe orientata a dare sostegno ai suoi oppositori.

Ma è l’accenno alla questione del terrorismo la parte più sensibile e allo stesso tempo la più insidiosa del recente discorso del Presidente siriano: sembra proprio la carta del terrorismo l’asso nella manica grazie al quale il regime è riuscito fino ad oggi a evitare un intervento straniero, a intimorire i paesi della regione (Israele incluso), e a garantirsi il persistente sostegno di vecchi e nuovi alleati, tra cui buona parte della comunità cristiana mediorientale.

Nel dichiarare che “il terrorismo si è ampiamente diffuso in diverse zone della Siria”, il Presidente alawita sta inviando un messaggio indiretto anche alla comunità internazionale, presente nel vicino Libano con un contingente militare (UNIFIL II) di circa 13.000 uomini. In sostanza, qualora fosse messo sotto pressione, il regime può attivare cellule terroristiche controllate e manovrate dal suo potente ed efficace servizio di sicurezza (Al-Mukhabarat). Del resto è ben noto da pubblicazioni e messaggi sul web che i gruppi jihadisti considerano UNIFIL un obiettivo “legittimo”. L’effetto quasi certo di un eventuale attacco terroristico di questo tipo sarebbe di rafforzare la tesi per cui il regime siriano è l’unica garanzia contro l’ulteriore destabilizzazione degli equilibri regionali. E’ a questo scenario che allude al-Assad quanto afferma: “Il nostro punto di forza è rappresentato dalla nostra posizione strategica. Se vogliono imporci un embargo, lo imporranno all’intera regione, ma abbiamo anche altri punti di forza su cui fare affidamento”.

La via scelta dal regime di Damasco ha una brutale dimensione interna e una più complessa dimensione internazionale: l’intreccio fra le due influenzerà profondamente gli equilibri regionali.