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L’Europa, la Germania e gli altri

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Nel Vecchio Continente regna una profonda confusione. Alla crisi finanziaria, penetrata da tempo nel sacro recinto dell’Eurozona, si accompagna da mesi una crisi politica sostanziale, con gli Stati membri dell’Euro che non sono disposti a cedere ulteriore sovranità a istituzioni sovranazionali. Al tempo stesso, i meccanismi istituzionali per fare fronte a scenari di emergenza accusano forti limiti, e l’esito più vistoso è una incredibile successione di incontri politici ai massimi livelli senza esiti risolutivi.

Per l’altra sponda dell’Atlantico questo scenario potrebbe presentare spiacevoli implicazioni. Se nel Vecchio Mondo si affermasse una tendenza disgregativa potrebbero, per esempio, approfittarne Russia e Cina e si altererebbe significativamente il quadro di riferimento del mondo occidentale, fin qui fondato sull’endiadi euro-americana.

Agli osservatori americani la crisi europea potrà apparire come un litigioso consesso di paesi esangui e non troppo desiderosi di salvare la valuta unica. Nonostante la grande ammucchiata di partecipanti e i toni ovattati e collegiali dei comunicati conclusivi dei vertici, il convitato di pietra rimane però uno solo: la Germania.

Unico giocatore con i numeri per salvare la moneta unica, il governo tedesco è al tempo stesso succube di un elettorato domestico con lo sguardo corto e di una dirigenza incapace di piegare alle esigenze del momento i blocchi costituzionali e culturali ideati nel secondo dopoguerra. Berlino, poi, gestisce in proprio il delicato sodalizio energetico – ma non solo – con la Russia, e si smarca dal resto del blocco euro-americano su partite non marginali: come sull’intervento in Libia, dove nel consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha scelto – come la Russia – di astenersi sulla risoluzione pro intervento.

Quali sono i nodi irrisolti nel Grande Gioco di Berlino?

L’elemento più immediato è lo sfasamento temporale tra politica dell’eurozona e mercati, con la prima tentennante e goffa e i secondi rapidi e repentini. Sotto questo punto di vista, non aiutano i “blocchi” delle democrazie europee, concepiti per limitare i governi tramite il vaglio indispensabile dei parlamenti nazionali, con esiti al limite del grottesco. Accade così che il Bundestag tedesco chieda di votare preliminarmente un testo tedesco che rispecchi l’accordo finale di un vertice che si deve ancora tenere! La Merkel si è addirittura spinta a chiedere la cancellazione di un vertice perché incapacitata a negoziare in assenza di un mandato del proprio parlamento, a sua volta a perenne rischio di “ricatto” da parte di piccoli partner di governo come i liberali della FDP o i bavaresi della CSU.

Berlino è di fatto imbrigliata in un’architettura istituzionale tanto complessa quanto poco pratica. Concepito nel secondo dopoguerra – come quello italiano – il sistema tedesco è un intricato gioco di pesi e contrappesi che sfavorisce governi forti a beneficio di coalizioni parlamentari. Il parlamento è un interlocutore cruciale e sul suo pieno coinvolgimento vigila la Corte Costituzionale, che ha censurato severamente ogni tentativo di indebolire la sua intermediazione. Un meccanismo ideato allo scopo di scongiurare il riproporsi di uomini forti, ma che presenta seri limiti di manovrabilità in fasi delicate come quella attuale. La Merkel è infatti alle prese con maggioranze risicate e mobili, e deve dedicare energie enormi a un esercizio quotidiano di analisi degli umori parlamentari, a loro volta molto concentrati sui segnali provenienti dall’elettorato.

L’altro elemento di fondo nella crisi dell’eurozona è quello del modello di governance europea, un compromesso da tempo irrisolto tra visioni e ambizioni diverse. Nel mondo di lingua tedesca, in particolare, l’idea di Europa unita ha avuto una duplice fonte. All’inizio del secolo scorso le idee imperialistiche dello studioso di geopolitica Karl Haushofer si incrociarono con quelle moderate di uno dei padri del federalismo europeo, il conte austro-ungarico Richard Coudenhove-Kalergi. È a quest’ultimo che risale il concetto di Pan-Europa, un concetto improntato a un federalismo democratico e moderato. Haushofer, invece, proponeva di creare alcune grandi aree di dimensioni continentali – delle vere e proprie “fette” di globo – che da nord a sud comprendessero ciascuna una zona artica, una temperata e una tropicale. Una frontiera atlantica avrebbe, per esempio, diviso l’area d’influenza degli Stati Uniti (l’intero continente americano) da quella tedesca che, partendo dalla Scandinavia, scendeva fino al golfo Persico e a tutta l’Africa.

Accorpamenti di questo genere avrebbero permesso a ogni pan-regione di essere autosufficiente. Ciascuna di esse sarebbe stata costituita da Stati periferici, fornitori di materie prime, e da uno Stato guida: nella pan regione americana, gli Stati Uniti, in quella asiatica il Giappone, in quella europea orientale la Russia. In quella europea occidentale il ruolo di leader sarebbe, come noto, spettato alla Germania.

Ad alcuni osservatori odierni l’Eurozona ricorda per molti aspetti il modello autoritario tedesco-centrico di Haushofer, anche se con toni involontariamente caricaturali. Berlino è tanto aggressiva nel dettare le proprie condizioni, quanto priva di chiarezza. Alla fermezza delle proprie richieste non corrisponde infatti né l’abilità di individuare soluzioni per superare le difficoltà create dagli altri partner dell’euro, né la volontà di salvare la baracca.

Come si può pensare che il resto del mondo accorra in aiuto dell’euro-condominio se nemmeno gli inquilini dalle metrature più ampie sono disposti a fare di più? Emblematica, in tal senso, la scelta del governo tedesco di proporre un taglio delle imposte per 6 miliardi di euro spalmato su due anni. Una cifra certo non trascendentale, ma che di questi tempi rivela la scelta di privilegiare il compiacimento del proprio elettorato anziché la guida del salvataggio europeo. Se si rilegge il testo votato dal Bundestag lo scorso 26 ottobre, questo aspetto è ancora più evidente: il parlamento tedesco stigmatizza il sostegno della BCE al debito dei Paesi euro investiti dalla diffidenza dei mercati – come l’Italia – senza tuttavia risolvere il nodo dell’assenza di un prestatore di ultima istanza all’interno dell’euro.

Intorno alla moneta unica si fanno strada ipotesi differenti e prendono piede gli scenari che ne contemplano la disgregazione parziale. È bastato che balenasse l’idea di un referendum greco sull’austerity per esaltare ulteriormente le diffidenze ataviche che albergano nel continente e rinfocolare la retorica tedesca contro le cicale europee. Stando così le cose, il Wall Street Journal non esclude ad esempio un ulteriore paio di “exit”: quello del Portogallo e quello dell’Irlanda. Quest’ultima, in particolare, potrebbe ancorarsi nuovamente alla sterlina inglese, com’è stato fino al 1979.

Rimangono infine alla finestra alcuni Paesi candidati all’euro ma già da tempo diffidenti nei confronti della regia di Berlino, come Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Si tratta di Stati che fanno parte di un circolo (il “Visegrad group”) caratterizzato da un’intesa forte con gli Stati Uniti e da un’altrettanto spiccata diffidenza verso la Russia e il suo sodalizio con la Germania. Infine, chi all’Euro non ha mai pensato – come l’Inghilterra – non ha i mezzi o più probabilmente l’intenzione per impegnarsi nel suo salvataggio.

Solo Mosca e Pechino osservano sornione gli sviluppi di queste ore e offrono aiuto, pronte a trarre dividendi politici dalla crisi del continente europeo e a negoziare condizioni diverse a seconda dell’interlocutore. Nel frattempo, la campagna acquisiti nel vicinato europeo ha già avuto inizio: lo scorso 20 ottobre la Russia ha infatti annunciato per bocca del ministro Sergei Shoygu l’intenzione di varare un’unione doganale con Serbia e Montenegro, procedendo ad un “upgrade” dell’attuale area di libero scambio. What next?