“Se aumenterà il numero dei regimi democratici nella regione mediorientale, molti governi dovranno rispondere ai cittadini sulla loro condotta in politica estera. Questo costringerà i leader di tali nazioni ad avere un atteggiamento meno accomodante nei confronti di Israele, che deve ora chiedersi come reagire alla primavera araba visto che non può più ignorarla”. Lo dice Daniel Levy, che ha partecipato ai negoziati israelo-palestinesi nei governi Rabin e Barak, ha contribuito alla Geneva Initiative (che ha elaborato uno schema di negoziato bilaterale a livello non governativo) e lavora attualmente presso la New America Foundation. Levy è stato ospite, a Milano, dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica.
Quali sarebbero le conseguenze di un veto statunitense alla proposta di riconoscimento formale dello stato palestinese avanzata dall’Autorità Palestinese alle Nazioni Unite?
Dobbiamo prima chiederci se i palestinesi riusciranno ad ottenere i nove voti degli altri membri del Consiglio di Sicurezza. Qualora questo accadesse è certo che l’America porrebbe il veto. Per evitare di arrivare a tale eventualità, la Casa Bianca cercherà di esercitare pressioni su altri stati membri perché non appoggino la proposta palestinese. Così facendo, pur evitando di dover porre il veto, gli Stati Uniti raggiungerebbero il loro obiettivo, senza esporsi direttamente. Si tratta comunque di un notevole dispendio di energie, con lunghe trattative.
Nel caso in cui la proposta palestinese fosse respinta, chi sarà il vincitore ?
Il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, sa che la sua proposta non sarà accettata, ma sta cercando di sfruttare il momento per mostrare al suo popolo che lui è seriamente intenzionato ad andare avanti per raggiungere l’obbiettivo. Bisogna quindi vedere cosa succederà in seguito. Qualora la proposta di Abbas passasse all’interno dell’Assemblea generale dell’ONU bisognerà capire se i palestinesi se la sentiranno di voltare pagina, abbandonando il sentiero intrapreso con gli Accordi di Oslo una volta per tutte. L’essenza di questi accordi stava nella cooperazione tra Israele e Palestina al fine di costruire uno stato palestinese. Questo spirito ora è svanito, ma. abbandonare completamente quel percorso è difficile quando si governa un territorio che per sopravvivere ha comunque bisogno della collaborazione di Israele – non dimentichiamo che Israele riscuote le tasse e gestisce anche le risorse palestinesi. Fino ad ora se i diplomatici palestinesi sono usciti dal paese per viaggiare è grazie a permessi israeliani. Se Abbas è andato all’ONU è perché le autorità israeliane glielo hanno concesso, ma cosa succederebbe se la parte palestinese abbandonasse davvero il sentiero disegnato a Oslo? Israele risulterebbe ovviamente il paese vincitore, ma la sua sarebbe una vittoria di Pirro di breve durata. Netanyahu si presenterebbe come un eroe, ma per Israele questo non sarebbe altro che un ulteriore passo verso l’isolamento.
I leader palestinese e israeliano devono ora fare i conti con un mediatore, il presidente Obama, che sta perdendo credibilità e popolarità?
Abbas non ha una forte leadership interna, anche se la sua popolarità è cresciuta rispetto a qualche tempo fa. Resta comunque un presidente fragile perché l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha perso credibilità negli ultimi anni, soprattutto a causa delle crescenti accuse di corruzione. La sua forza è momentanea e continuerà a resistere solo fino a quando Abbas affronterá direttamente Israele. Sull’altro fronte, la forza di Netanyahu è apparente, perché la destra israeliana, che ha molta influenza, non lo sostiene. L’idea dell’America come mediatore deve in realtà essere superata. Gli Stati Uniti non sono mai stati dei mediatori sinceri, ma bisogna chiedersi chi può proporsi davvero per riempire il vuoto che questi hanno lasciato.
Il segretario alla difesa statunitense, Leon Panetta, ha sottolineato recentemente che per garantirsi una reale sicurezza, Israele non può fare affidamento solo sulla forza militare, ma deve sforzarsi anche diplomaticamente. Che significato hanno avuto queste parole?
Panetta non ha detto cose troppo diverse da quelle che altri membri del dipartimento di Stato hanno detto a seguito degli eventi della primavera araba. Con la sua dichiarazione ha affermato che Israele deve ora fare la pace non solo con qualche leader arabo, ma con un pubblico fatto di popolazioni che iniziano a contare. Nelle parole di Panetta c’era qualcosa di nuovo, cioè l’urgenza di guardare il mondo arabo con occhi diversi.
Come si comporterà Israele nel nuovo contesto regionale?
Israele ha davanti a sé tre possibili scenari. Può comportarsi come un porcospino, diventando ancora più aggressivo e allontanando da sé tutti gli altri attori della scena internazionale. Questa sembra essere l’opzione di Netanyahu, che non è pronto a fare nessuna concessione, non vuole chiedere scusa all’Egitto per la morte dei suoi soldati e non vuole riappacificarsi con la Turchia dopo la crisi diplomatica degli ultimi anni. Questa non è certo una buona strategia. In alternativa, Israele potrebbe comportarsi come un camaleonte che cambia il colore della sua pelle in basa all’ecosistema nel quale si trova. Questa potrebbe essere la strategia favorita di Kadima. Infine c’è il terzo scenario: Israele potrebbe comportasi come un bruco. Se lo stato ebraico vuole credere in un nuovo Medio Oriente, sperando in qualcosa di più della sua sussistenza, Tel Aviv deve compiere lo sforzo di cambiare pelle e trasformarsi in farfalla. Questo vorrebbe dire fare i conti con la storia e ammettere gli errori del passato, cercando di voltare pagina. Israele dovrebbe riconoscere le espropriazioni subite dai palestinesi, ricompensare quanti hanno perso le loro terre e cambiare il modo di rapportarsi con la comunità araba palestinese. Lo stato ebraico dovrebbe diventare una democrazia completa, rispettosa dei diritti di tutti i suoi cittadini, nessuno escluso.