Un mondo di medie potenze? Siamo abituati a focalizzarci sulla struttura del sistema internazionale guardando soprattutto alle grandi potenze e al multipolarismo emergente. Un trend più recente e più marcato del sistema internazionale è invece diventato l’attivismo internazionale delle medie potenze. Un trend che precede la primavera araba, ma che quest’ultima (compresa la crisi libica) ha ulteriormente accentuato. Vi ha contribuito la crisi economica in Occidente e la diffusione del potere economico internazionale (riflessa, tra l’altro, nella creazione del G20). Ma ci sono altri segnali importanti: l’Iran con sua la corsa al nucleare e i tentativi di espansione della propria influenza regionale; la Turchia con il neo-ottomanesimo; l’Arabia Saudita che si comporta da gendarme in Bahrein, mediatore principale della crisi yemenita e sempre più finanziatore dei paesi della primavera araba.
Qualcosa si muove anche in Europa, sebbene siamo solo agli inizi. Le potenze medie e medio-grandi europee l’hanno fatta inusualmente da protagoniste in Libia. Così come la Polonia, come presidente di turno dell’UE, si é fatta promotrice insieme ad altri paesi europei – tra cui l’Italia – del rilancio del progetto di difesa europea.
Cosa ha favorito il ritorno sulla scena internazionale delle medie potenze? Hanno contribuito almeno tre fattori. Innanzitutto il parziale retrenchment internazionale degli Stati Uniti, dettato dalla crisi economica e dalla mission fatigue.
In secondo luogo, il fatto che le altre grandi potenze emergenti o già emerse (il mondo dei BRICs, per intenderci) non sono pronte o particolarmente interessate ad assumere iniziative internazionali. I BRICs guardano soprattutto al loro consolidamento interno. Per Cina e Russia, in particolare, la priorità è di avere un ambiente internazionale non turbolento, che non li costringa a distrarsi dall’agenda dello sviluppo economico e sociale interno; le loro politiche estere sono fondamentalmente mercantiliste: si comportano dunque da potenze pro-attive sul piano geo-economico, ma sono fautrici dello status quo sul piano geo-politico.
Il terzo fattore è la fluidità nella regione del Grande Medio Oriente che si é venuta a creare già con la fine della guerra fredda e ancora più dopo l’11 settembre; una situazione che si è ulteriormente accentuata con l’invasione americana dell’Iraq e, da ultimo, con la primavera araba. Questa fluidità, combinata con i due precedenti fattori, ha aperto nuovi spazi geo-economici e geopolitici che le medie potenze cercano oggi di occupare.
La competizione tra le medie potenze è in effetti un parametro di tipo “realista”, con cui guardare alle dinamiche in corso nel Grande Medio Oriente, forse più significativo rispetto ai paradigmi cultural-religiosi (lo scontro di civiltà oppure sunniti versus sciiti) prevalsi negli ultimi anni. Si tratta di una competizione “tra” medie potenze – Turchia, Arabia Saudita, Iran – non “contro” l’Occidente, ma piuttosto “senza” l’Occidente. E questa tesi resta valida anche se si considera il grave deterioramento dei rapporti tra Turchia e Israele.
Gli “asset” delle medie potenze nel Grande Medio Oriente sono oggi soprattutto l’economia (incluso il petrolio) e quel particolare tipo di soft power che consiste nella proiezione dei propri modelli politico-economici (soprattutto nei casi della Turchia e dell’Iran). Ma domani, con il protrarsi della corsa iraniana al nucleare, gli strumenti della competizione potrebbero diventare pericolosamente militari. Per questo l’Occidente e l’Europa, in primis, farebbero bene ad occuparsi di più e più attivamente delle medie potenze invece di delegare ad esse la sicurezza nel Grande Medio Oriente.