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La pirateria come nuovo fattore strategico

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Da marginale manifestazione di banditismo o rivendicazioni localistiche, la pirateria si è rapidamente trasformata in una grave turbativa della libertà di navigazione. Con la Somalia nel ruolo di principale centro di irradiazione, la pirateria ha causato perdite valutate dai 7 ai 12 miliardi di dollari nel 2010, ed è stata definita dalla Camera di Commercio Internazionale (ICC) “una crescente minaccia alla stabilità delle linee di rifornimento energetico destinate alle principali nazioni industrializzate e non solo ad esse”.  

L’emergere della pirateria come un importante fattore geostrategico ha cominciato a prendere corpo nei primi anni del millennio. È stata poi in un certo modo formalizzata nel 2008, anno in cui il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è intervenuto direttamente sulla questione e le navi da guerra di una ventina di paesi sono state chiamate a dare un contributo fattivo al contrasto del fenomeno.  Le più importanti società di navigazione del mondo (International Chamber of Shipping, BIMCO, Intercargo e INTERTANKO), hanno parlato, in una lettera al segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon resa nota ai primi di settembre, della “trasformazione dell’Oceano Indiano nel Far West”.

Dato che un terzo del petrolio esportato nel mondo passa per le rotte a rischio dell’Oceano Indiano, la pirateria e la difficoltà di contrastarla in modo adeguato contribuiscono, tra l’altro, ad accelerare la costruzione di quella rete di oleodotti che sempre più condiziona rapporti commerciali e politici nonché lo schema delle alleanze internazionali. È stata anche uno stimolo in più per le potenze emergenti, Cina in testa, a “mostrare i muscoli” in mari lontani dalle loro coste.  Pechino, in particolare, è stata molto rapida nell’inviare verso la Somalia una squadra navale di prima qualità, composta da due moderni e sofisticati cacciatorpedinieri (Haikou e Wuhan), più un’unità di supporto, con 800 uomini di equipaggio e circa 70 militari delle unità speciali.

D’altro canto, la pirateria accentua anche la tendenza a (e la necessità di) sviluppare una cooperazione tra paesi amici ma anche tra potenze rivali. Nel corso della sua ultima visita in Cina, il capo di Stato Maggiore americano Mike Mullen ha concordato col suo omologo cinese Chen Bingde una serie di manovre navali congiunte per la sicurezza della navigazione. Non meno rilevante il fatto che sia stato proprio in nome del contrasto della pirateria che l’Unione Europea, nel 2008, abbia effettuato la sua prima missione navale operativa congiunta (nome in codice Atalanta).

In questo quadro in rapida evoluzione, dal caso somalo si possono già trarre alcune lezioni. La connessione tra atti di pirateria e terrorismo, nonché tra pirateria e perdita di coesione dello stato post-coloniale (un fenomeno assai diffuso in Africa) ha indotto a risposte ispirate alla “guerra al terrorismo”. Queste si sono presto rivelate inappropriate o utopistiche (impossibile anche per una nutrita “coalizione” internazionale pattugliare tutto l’Oceano Indiano). È però innegabile che la pirateria in Somalia è figlia del disastro economico e sociale di quel paese: le condizioni che si sono create vedono un mix di “semi–ordine” sponsorizzato da centrali terroristiche ideologizzate e un’anarchia che è di fatto funzionale ai signori della guerra. Sebbene gli Shabaab (le forze ritenute più vicine ad al Qaeda) siano in una fase di difficoltà, poco sembra giovarsene la credibilità del governo di transizione, mentre le strategie di state building appaiono senza speranza. Intanto, l’aumento della disponibilità di armi sofisticate (complice anche la crisi libica) fa prevedere un trend ancora più negativo, come dimostrato dalle crescenti potenzialità offensive dei pirati.

La sfida della pirateria non riguarda soltanto gruppi somali né soltanto l’Oceano Indiano. I pirati sono da sempre presenti nello stretto di Malacca e in tutti i mari prospicienti le coste dell’Indonesia e della Malaysia, nelle acque del Bangladesh, a Kandla (India) e a Manila (Filippine). Soprattutto nel Mar Cinese meridionale, è stata rilevata un’evoluzione preoccupante con i primi abbordaggi e sequestri di navi in mare aperto (in precedenza quasi sempre i pirati depredavano le navi prima che salpassero); per ora gli episodi e i danni restano però limitati.   

L’altra area a grande concentrazione di atti di pirateria è il Golfo di Guinea. Qui la crescita non è stata esponenziale come nel Golfo di Aden, ma ha ugualmente ricadute geostrategiche. Ha infatti influito sulla capacità di esportare petrolio ed altre importanti materie prime (tra le quali il ferro) da parte dei paesi rivieraschi. Paesi tra i quali figura un grande esportatore come la Nigeria e attori medio-piccoli come il Gabon o il Camerun. Dopo aver operato soprattutto nella zona del Delta del Niger, negli ultimi mesi la pirateria sembra avere scelto – non a caso – come area di azione preferita il Benin (dodici attacchi segnalati nei primi sei mesi del 2011 contro zero nell’intero anno precedente). Il Benin, che rappresenta una vitale via d’accesso al mare per paesi come Burkina Faso e Niger, non ha potuto far altro che chiedere aiuto alla Nigeria. Ne è derivato un nuovo sforzo di coordinamento regionale, al cui successo è comunque strettamente legato l’intervento di potenze esterne, a cominciare da Stati Uniti e Cina, che alle ricchezze minerarie dell’Africa Occidentale sono molto interessate.

Non c’è dubbio, in ogni caso, che il fenomeno della pirateria stia assumendo proporzioni globali ma abbia l’epicentro in Somalia. Secondo il Piracy Reporting Centre (PRC) dell’International Maritime Bureau (IMB), gli attacchi contro navi commerciali, nei primi sei mesi del 2011, sono stati in tutto il mondo 266, con un notevole aumento rispetto allo stesso periodo del 2010 (196). Il 60% sono stati effettuati da somali (163 attacchi contro 100 nello stesso periodo del 2010). Questi hanno attualmente nelle loro mani, a seguito dei sequestri, 20 navi e i loro equipaggi (circa 400 uomini). I pirati somali si sono dimostrati anche i più rapidi nell’adattarsi alle iniziative della comunità internazionale. La risoluzione ONU n. 1816, che permette di catturare i pirati e di sequestrare le loro imbarcazioni anche all’interno delle acque territoriali somale, ha ridotto gli abbordaggi nel Golfo di Aden; ma i somali hanno contrattaccato allargando il loro raggio di azione, intensificando l’uso di navi appoggio, accrescendo il loro potenziale offensivo (ora non si usano più coltelli, ma armi automatiche e lanciarazzi nell’80% degli abbordaggi). Inoltre proprio quest’anno, per la prima volta, i pirati si sono mostrati in grado di colpire nella stagione dei monsoni. Anche le vittime sono scelte con cura: le navi più indifese, ovvero quelle di paesi ancora privi di leggi che consentano l’invio di soldati sui vascelli commerciali.

Quella della presenza di soldati ben armati con regole di ingaggio “robuste” sulle navi mercantili – prassi alla quale si è recentemente adeguata anche l’Italia – è la nuova frontiera del contrasto alla pirateria. Si sta in sostanza passando da un dispiegamento di naviglio militare, che ricalcava una manifestazione di potenza di tipo piuttosto tradizionale, ad una sorta di guerra a bassa intensità, dove più che a vincere si bada a non perdere. Nella già ricordata lettera delle compagnie di navigazione si afferma che “l’attuale situazione richiede una nuova strategia” che sia basata sulla “creazione di una forza dell’ONU composta da guardie militari armate da mettere in piccolo numero a bordo delle navi mercantili”. Si tratta in sostanza di un peacekeeping/peacemaking internazionale con mandato ONU di nuova concezione. Un approccio che potrebbe consentire anche a paesi che non dispongono dei mezzi per farlo di partecipare al contrasto della pirateria, riducendo il numero – e le pretese economiche – dei contractor privati (attualmente indispensabili). Non si vedono all’orizzonte soluzioni semplici, visto che l’unica concreta alternativa, il blocco dei porti somali, sarebbe quasi certamente controproducente, causando ancora più fame e disperazione nel paese – vale a dire proprio la benzina che alimenta il motore della pirateria.