international analysis and commentary

Il resistibile fascino del populismo

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È certo falso che la storica sconfitta (e scomparsa) dell’Unione Sovietica, e della proposta politica che essa rappresentava, abbia comportato la fine dell’ideologia. Le alter ideologie sono in ottima salute: dall’islamismo al neoliberismo, senza parlare di un certo rilancio, di fronte alla dura crisi economica mondiale e al dato obiettivo dell’aumento delle disuguaglianze, dello stesso marxismo.

Ma quello che caratterizza il nostro tempo, sotto il profilo politico-ideologico, è la diffusione, a livello globale, di una tendenza certo non nuova, ma che oggi dimostra di essere in grado di attecchire nei più svariati climi: il populismo.

Il termine “populista” viene spesso usato come epiteto nel quadro delle polemiche politiche, e non vi sono molti politici, nel mondo, che accetterebbero di definirsi tali. Eppure credo sia possibile elencare elementi qualificanti capaci di giustificare una attribuzione non soggettiva né meramente polemica della definizione di populista.

Il primo segno distintivo del populismo, riscontrabile a livello superficiale, è quello di fornire risposte semplici a questioni complesse: il populismo rifugge dalle complicazioni, dalla problematicità, da visioni in cui pro e contro, ragioni e torti, si misurano prima di arrivare alla formulazione di una diagnosi e di una proposta politica. Dietro questa “impazienza verso la complessità” troviamo poi un forte, radicato ed esplicito anti-intellettualismo, combinato con l’esaltazione dell’ “uomo qualunque” che non solo non è a disagio per la propria ignoranza, ma la rivendica come segno di genuinità contrapposta alle sottigliezze fraudolente degli intellettuali. Vi è poi la presenza di un leader abile nella comunicazione demagogica – oggi soprattutto attraverso i media – e capace di convincere le masse, nonostante spesso sia ben lontano (economicamente e sociologicamente) dall’essere un Masaniello in grado di capire e difendere le vere esigenze e i veri valori della gente comune. Last but not least, il populismo si presenta come antipolitica, pur essendo, ovviamente, un’altra politica.

Ebbene, all’inizio del XXI secolo questi aspetti si stanno rivelando vincenti molto più che non nel XX. Il fenomeno si spiega in primo luogo non con una ipotetica “caduta delle ideologie”, ma con qualcosa di più preciso: è la fine della contrapposizione comunismo/anticomunismo che aveva fornito una sorta di paradigma definitorio, di vertebrazione, del sistema internazionale e del quadro politico anche in paesi apparentemente al di fuori della contrapposizione Est-Ovest. A questo va aggiunto l’effetto sconcertante della globalizzazione, e concretamente il fatto che oggi gli individui si sentono sempre più in balia (pensiamo soprattutto alla crisi economica) di forze che non solo sono sottratte al loro controllo, ma che non possono nemmeno essere individuate ed operano in un minaccioso “altrove”.

Il populismo, nella sua rozza semplicità, arriva a fornire risposte che altre proposte politiche non sono in grado di fornire, o forniscono con modalità troppo complesse o addirittura proponendo sacrifici e rinunce – inaccettabili per individui che più che cittadini responsabili (capaci di rivendicare i propri diritti ma anche di riconoscere i propri doveri) sono ormai consumatori insaziabili e quindi frustrati.

La forza del populismo, la sua capacità di affermarsi nei più diversi contesti culturali e socio-economici è tuttavia dovuta non alle sue caratteristiche “strutturali”, ma piuttosto alla sua capacità di basarsi, a seconda dei paesi e dei contesti, sui più disparati richiami ideologici.

Oggi vediamo quindi, in America Latina, un rilancio di populismo “anti-imperialista”(in Venezuela soprattutto, con Hugo Chávez, ma anche in Ecuador, Perù, Bolivia).

In Europa e negli Stati Uniti, invece, il populismo è non solo anti-governo, ma soprattutto anti-stato. Colpiscono, ad esempio, i parallelismi fra le polemiche della Lega “contro Roma” e quelle del Tea Party – un movimento populista radicale che sta oggi in larga parte dettando l’agenda del Partito Repubblicano – “contro Washington”: entrambe rappresentate come covi di corruzione e sperpero del denaro dei cittadini indebitamente sottratto da un fisco di cui si mette in dubbio la stessa legittimità. In Medio Oriente l’esempio più significativo di populismo è forse Mahmoud Ahmadinejad: non certo un novello Khomeini quanto un Chávez, nella miscela fra demagogia anti-elitaria e anti-imperialismo. I diversi riferimenti ideologici, nel primo caso all’Islam, nel secondo al “Bolivarismo”, non cambiano la comune sostanza populista.

In tutti questi casi il populismo si presenta non come proposta politica, ma come antipolitica, raccogliendo l’adesione (almeno fino a quando non ne risulta evidente la natura fraudolenta) di masse disorientate politicamente – anche per i clamorosi fallimenti dei partiti tradizionali – e duramente colpite da una crisi economica a livello globale.

Ma qual è l’effetto di questa ondata populista, quali sono i problemi e i pericoli di questo fenomeno che sembra tutt’altro che passeggero?

Sarebbe un errore pensare che il populismo costituisca una sfida al concetto di democrazia. A dire la verità, anche se il populismo è demagogico nelle promesse e truffaldino nella prassi, la sua descrizione delle élite è spesso fondata: illimitata avidità, istinti oligarchici, disprezzo per la gente comune.

In Tailandia è capitato di sentire il rappresentante di un partito opposto al populista Thaksin Shinawatra che dichiarava che l’unica soluzione all’instabilità del paese era togliere il diritto di voto ai contadini analfabeti, base elettorale fondamentale di Shinawatra (mentre le classi medie e alte urbane si schierano con l’opposizione).

Il problema del populismo non è la democrazia, intesa come governo della maggioranza. Il problema è il liberalismo, con il rispetto delle minoranze e di una società plurale. Il problema è anche e soprattutto la divisione dei poteri. I leader populisti, forti di un appoggio popolare spesso reale, ignorano il parlamento, cercano di squalificare il potere giudiziario laddove non riescono a controllarlo attraverso nomine politiche. Il problema è quello della libertà di stampa, oggi minacciata da governi populisti dall’Ungheria all’Ecuador.

La risposta al populismo non potrà quindi essere una risposta elitaria, con il tentativo di riaffermare egemonie oligarchiche, cupole tecnocratiche, centralismo statalista. Dovrà essere piuttosto un tentativo di non dimenticare che la democrazia, in tutte le sue versioni – da quella progressista a quella conservatrice – deve tenere conto delle esigenze della maggioranza della popolazione. Considerazione che sembrerebbe tautologica, ma che purtroppo oggi non lo è, se pensiamo quanto oggi la gente comune sia chiamata a pagare il costo di politiche decise al di fuori di ogni controllo democratico.

“No taxation without representation” dovrebbe dunque valere anche per la crisi economica.

Il populismo si sconfiggerà non con meno democrazia, ma con una democrazia più coerente e più popolare.