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America: un brutto bilancio

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La battaglia che si è scatenata a Washington sull’aumento del tetto al bilancio dimostra che il sistema politico americano sta quasi arrivando al limite. Il limite oltre a cui la polarizzazione ideologica impedirà di prendere decisioni razionali sul modo di risolvere la crisi fiscale.

Noi europei abbiamo ben poche lezioni da dare su questo argomento. La lentezza decisionale del sistema Europa è stata tale, negli ultimi due anni, da avere permesso a una crisi periferica, come quella greca, di diventare una crisi sistemica. Finché l’UE resterà uno “strano animale” – né una federazione né una confederazione – farà fatica a funzionare. Sul versante americano, le difficoltà di bilancio di singoli stati, dalla California al Minnesota, contano meno. Forse meno di quanto dovrebbero, considerato che la California non è la Grecia, è una delle grandi economie mondiali (all’incirca all’undicesimo posto per il PIL). Ma è Washington ad essere più divisa di prima. Le difficoltà del Partito Repubblicano, condizionato dal Tea Party, hanno complicato enormemente il raggiungimento di un accordo. Che ha peraltro penalizzato soprattutto le posizioni dei democratici. Obama si è salvato in extremis. Ma con questa vicenda ha perso ulteriormente credito.

Su entrambe le sponde dell’Atlantico, il risultato della polarizzasione ideologica è abbastanza simile: mentre diminuisce la fiducia nell’economia diminuisce anche la fiducia nella politica. Timothy Garton Ash ha parlato, da storico, di crisi strutturale del “capitalismo democratico liberale”. Barack Obama ha detto, in uno di quei suoi discorsi troppo professorali per piacere davvero alla gente, che la Costituzione americana prevede un governo “diviso”, non un governo “disfunctional”: che non funziona. Ad essere onesti, il presidente democratico ha dato il suo contributo alla lunga controversia sul bilancio; se non altro perché non ha messo per tempo sul tavolo un piano dettagliato e credibile di riduzione delle spese. Da parte loro, i repubblicani hanno reso impossibili passi che sarebbero stati necessari anche sul lato delle tasse.

L’America ha perso così l’occasione di tentare una vera riforma del bilancio. Una riforma – dice chiunque guardi in modo spassionato alla situazione degli Stati Uniti – indispensabile. E che non riesce ad essere impostata per due ragioni, una ideale e una strumentale: sul piano ideale, continua ad esistere una differenza di fondo, fra democratici e repubblicani, sul “size” e le funzioni del governo; su quello strumentale, la questione del bilancio è stata usata come arma per colpire Barack Obama in vista della scadenza elettorale del 2012. 

Sottolineando la polarizzazione senza precedenti nel congresso americano, si rischia di esagerare. C’è sempre qualcuno pronto a ricordare che è stato così varie volte, nel 1969 con Richard Nixon per esempio e in modo continuativo dal primo mandato di Bill Clinton, nei primi anni Novanta. Gli americani si lamentano volentieri del loro sistema di governo, esattamente come noi europei. Il problema è che oggi hanno probabilmente ragione. Perché, come spiega uno dei più brillanti politologi americani, Norman Ornstein, è quasi scomparso quello spazio di centro che permetteva decisioni nazionali (bipartisan) e razionali: nell’interesse comune, più che nell’interesse di parte. Il congresso, dalla elezioni di Barack Obama in poi, è teatro di una specie di campagna elettorale permanente. Ed entrambi gli schieramenti politici si comportano come “partiti parlamentari”, divisi da ideologie contrapposte. Quando invece l’impianto del sistema americano non è parlamentare ma è basato sulla separazione dei poteri e sulla logica dei checks and balances, dei paesi e dei contrappesi. Conclusione: partiti parlamentari, in un sistema non parlamentare, non possono funzionare. Il risultato è la paralisi. Da questo punto di vista, il tira e molla sul bilancio è solo una spia del problema più generale: dall’insediamento della nuova maggioranza repubblicana alla Camera, leggi più o meno importanti (tre accordi commerciali, la nuova legge sull’energia) sono rimaste congelate; nomine decisive non riescono ad essere confermate; e non è chiaro se sopravvivranno le riforme varate a fatica da Barack Obama nei primi due anni del suo mandato, con un congresso ancora a maggioranza democratica.

Sembrerebbe che mentre i virus della crisi finanziaria migravano dall’America verso l’Europa, nel 2008, quelli del parlamentarismo malandato migravano in direzione opposta. Il dibattito politico americano sembra più familiare di quanto sia mai stato, a orecchie europee ed italiane; incluse le voci favorevoli ad un terzo partito, capace di occupare un mitico centro cui, dopotutto, continua a guardare una parte dell’elettorato degli Stati Uniti.

Abbiamo speso troppo (il debito) e non riusciamo a decidere granché (la polarizzazione politica). Se la patologia di larga parte dell’Occidente è diventata questa, c’è poco da rallegrarsi. Il presente/futuro ci riserva un paese, la Cina, che ha molte altre fragilità e svantaggi comparativi. Ma che ha risparmiato molto e riesce ancora a prendere decisioni strategiche. Come si è visto, il debito è una questione politica, non solo economica. Europa e Stati Uniti dovrebbero forse ripartire di qui: abbiamo bisogno di avere alle spalle sistemi politici che funzionano – il che significa: capaci di decidere nell’interesse comune – per salvare le sorti delle democrazie occidentali.